Nel nome di Dio

Giulio Boato

Un re dovrebbe proteggere il proprio popolo, non servirsene come scudo umano. L’indignazione si diffondeva a macchia d’olio tra la folla sparpagliata nella piazza d’armi. Dalla dichiarazione di guerra, il sovrano si era rintanato nel castello, protetto da due massicce torri di guardia in pietra bianca, e comunicava al popolo tramite brevi annunci. Siamo nelle mani di Dio, aveva detto, e voi tutti sapete che io incarno la figura più cara a nostro Signore. Nel suo nome, avete l’obbligo civile e morale di proteggermi. L’annuncio non stupiva certo il corpo di guardia, composto da pochi fanti e cavalieri. La popolazione civile, invece, si era ritrovata con le spalle al muro. La dichiarazione del re non era giustificabile, non dopo tutte le battaglie per i diritti civili. Nessuno avrebbe messo in dubbio la volontà di Dio, non in un regno fedele e devoto come quello; ciò che sconcertava la folla era la strategia di difesa imposta dal sovrano: la popolazione era stata schierata fuori dalle mura e davanti ai militari, in guisa di paraurti di fronte all’attacco nemico. Non siamo soldati, siamo cittadini! Urlava la folla. L’esercito in prima linea, non i civili! Grida furenti si alzavano verso le mura del castello, ma l’unica risposta fu la fredda immobilità dell’esercito, disposto a schiera tra le torri, spingendo i civili verso morte certa. Le armature bardate di bianco non lasciavano intravedere lo sguardo dei soldati, pronti ad affrontare la minacciosa orda nera che avanzava all’orizzonte. Davanti agli occhi increduli della popolazione si delineava l’assurda, atroce prospettiva: affrontare in prima linea il nemico, disarmati. Come poteva, il re, ordinare il massacro del suo stesso popolo?

 

Dio mi perdoni, pensava il re, primo spettatore della carneficina che si consumava sotto le feritoie della sua torre. In tutta la sua lunga vita, non era mai stato costretto ad assistere ad una tale danza macabra. A perdita d’occhio, prati e colline si tingevano di rosso. Pochi raggi di luce aranciata penetravano le nubi, illuminando le falci dei cavalieri dell’apocalisse. Impiccati, squartati, smembrati, decapitati giacevano i suoi cittadini, ammucchiati in alte pire attorno ad alberi morti. Cavalli scheletriti spazzavano la brughiera, come cani erranti sul campo di battaglia. Colonne di fumo informi davano vita a mostri immondi, terribili figure a guardia dei cadaveri. Il re chiuse gli occhi e sperò, senza fiducia, di cancellare quelle visioni infernali. Ma le peggiori fantasie di Bosch riapparvero immutate, rese ancor più reali dal crescere dell’odore di ferro e sangue. A piccoli passi, il re si allontanò dalla feritoia. L’artrosi gli aveva calcificato le articolazioni, sbriciolandone le cartilagini, e ormai non riusciva più a muoversi senza il supporto della sua sedia a rotelle. Accanto a lui, sua moglie l’aiutò a sedersi.

 

A differenza del marito, la regina era ancora nel fiore dell’età. Un matrimonio combinato l’aveva introdotta nel regno a soli sedici anni, quando il re aveva già oltrepassato la sessantina. Il suo spirito giovane e vitale aveva dato uno slancio positivo alla crescita del paese, generando un sincero miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Era stata lei a concedere ai sudditi, su accordo del marito, maggiori diritti civili, sgravando le imposte e introducendo l’educazione obbligatoria per i minori. Ma la guerra aveva cancellato tutto. La feritoia, la loro unica finestra sul mondo, si affacciava sull’inferno in terra. In poche ore di battaglia, il popolo era stato massacrato ed ora veniva il turno dell’esercito. Perché? Perché tutto questo per difendere te, nel nome di Dio? Il re non rispose. Non lo sapeva. Chi sono quegli assassini? Chi li manda? Chi ha dichiarato la guerra? Sono nemici, non so altro. La regina appoggiò l’occhio alla lente del cannocchiale, e vide: contadini, braccianti, fornai, macellai, muratori, scultori, medici, cuochi. Si agitavano, sconvolti, per il campo di battaglia, coperti di polvere scura. Dietro di loro, una fila di fanti e cavalieri, seguiti da due enormi argani neri, alti come torri. Anche l’esercito nemico aveva messo il popolo in prima fila. La guerra dei poveri. La regina non tollerò oltre: scese di corsa, montò a cavallo e si ritrovò sul fronte, a combattere al fianco dei pochi soldati superstiti: un cavaliere e un fante, che proteggevano l’unica torre rimasta in piedi, dove si era rifugiato il re. Non avrebbero resistito a lungo. L’esercito avversario, per quanto ridotto, contava più elementi. Nell’infuriare della battaglia, un cavaliere nero scartò di lato, superò d’un balzo il fante e menando il pesante spadone decapitò d’un colpo la regina. Il bel viso angelico rotolò ai piedi dell’ultimo cavaliere bardato di bianco.

 

In nome di chi? Di Dio? Ma quale Dio? Il cavaliere non ebbe il tempo di rispondersi che un boato assordante lo scaraventò a terra. La sua torre era crollata, riducendosi ad un cumulo di macerie fumanti. Mentre il fante teneva a distanza i soldati nemici, il cavaliere galoppò veloce sino ai piedi del rudere: tra gli sbuffi di polvere chiara, un grido sovrastò il fragore delle armi. Il soldato smontò da cavallo e andò ad estrarre il re rimasto incastrato tra le pesanti pietre calcaree. La barba e le sopracciglia erano coperte di detriti, nascondendo la maschera di terrore che si era sostituita al suo volto. Il cavaliere si voltò appena in tempo per assistere alla morte del suo ultimo compagno: lanciatosi in una vertiginosa diagonale attraverso le linee nemiche, il fante riuscì a sfondare uno degli argani prima si soccombere sotto una pioggia di frecce. Rovinando al suolo, la grossa macchina da guerra travolse gran parte dell’esercito avversario, scoprendo un piccolo baldacchino nascosto dietro le fila di soldati. Il cavaliere capì: in un istante capì che la sola via di salvezza era dietro quelle tende rosse. Fu un lampo di lucida follia: scelse di abbandonare il suo re per salvarlo, a costo di sacrificare se stesso. Gliel’avevano inculcato sin da piccolo, in famiglia, in chiesa, all’accademia militare e ogni giorno in caserma: la sua vita dipendeva dalla vita del suo re. Se fosse morto il re, sarebbe finito il mondo. Così dicevano. Ma se tutti voi vi spegnete, e il re sopravvive, voi tutti vivrete in lui. Parola di Dio.

 

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Un altro re, vecchissimo, ma dalla barba ancora inverosimilmente nera, era sdraiato in un letto di cuscini, riparato da tendaggi porpora, quando la punta ammaccata di una lancia gli perforò il costato, trapassandolo, e portandosi via con lui tutto il baldacchino. Una valanga organica, composta da un cavallo, un cavaliere, un cadavere regale e un tendaggio, rotolava vermiglia attraverso il campo di battaglia, dritta verso la falesia. Il re dalla barba bianca assisteva attonito, incapace di muoversi, al sacrificio del suo ultimo suddito, e al conseguente disfacimento dell’intero esercito nemico. Un miracolo. Il gesto matto di un soldato sconosciuto gli aveva donato la salvezza. Sia fatta la volontà del Signore, pensò il re bianco. Per un momento gli balenò tra le pupille la scintilla di un dubbio: quale Signore? La landa desolata, ricoperta di corpi mutilati, animali dimezzati e arti sparpagliati, non gli rispose.

 

***

 

«Signore, è ora di andare». Il soldato entrò nella piccola cabina, carica di fumo, dopo aver bussato. Il generale rispose: «Arrivo, caporale. Giunge proprio a tempo debito: il signor ammiraglio ed io abbiamo appena concluso la partita. Non è vero, ammiraglio?». L’ammiraglio annui, in silenzio. Si alzò, e disse: «Dopo di lei, signor generale. Ha preparato un discorso per animare le truppe? Sono cinque giorni che aspettano questo momento». Il generale notò l’aria scontrosa del suo collega. Non aveva mai imparato a perdere a scacchi. Lievemente inorgoglito dalla vittoria, il capo delle armate di terra accennò un sorriso sardonico e replicò: «Ma quale discorso, ammiraglio! Una razione di whiskey è tutto ciò di cui hanno bisogno. E che Dio gliela mandi buona, a quei disgraziati!».

 

Erano le 5 del mattino del 6 giugno 1944, e tirava un vento gelido su quel piccolo rettangolo di mare che lambiva Omaha Beach.

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Commenti: 1
  • #1

    Ruben (giovedì, 08 gennaio 2015 16:42)

    Ah! Ottima prova Giulio! Bell'idea!