Pjasino

Matvey Schmidt

‘Una volta finito, strinse il mio petto, ma io già correvo sulla roccia.

Già scalfivo l’aria del Circolo Polare, graffiandomi i piedi sui fossili di lichene.’

 

*

 

Quanto fui felice di sapere che mia mamma era fuggita di casa.

Aveva abbandonato mio padre, il fumo, il nichel di Noril’sk. Io ero appena nato, non me ne accorsi. Sapevo solo – più avanti – che quando i minatori parlavano della dama del lago Pjasino, si riferivano a lei. Tutti quegli omoni fuligginosi mi rendevano orgoglioso, citavano mia mamma come una favola popolare. Conosciuta da tutti, impressa nelle cave. Benché mio padre mi avesse insegnato l’amore per il fuoco e la polvere, io nascosi a tutti la mia gioia per mia mamma, levata dal gelo del lago, leggera come un lenzuolo angelico. La immaginavo limpida.

L’ultima volta che vidi mio padre avevo tredici anni: presi il suo cappotto, mentre era in fabbrica, lasciandogli in cambio il mio libro e qualche giocattolo - non mi servivano più - e presi la Voksalnaja, che costeggiava l’ultimo scavo della città. Poi andai verso nord. Avevo i miei sirniki, ben cotti con la panna acida. Ero pronto per mia mamma.

Cosa le avrei detto, una volta incontrata? ‘Chissà da quanto tempo non legge qualcosa…’, tornai indietro e ripresi il libro. Non era rilegato, era una copia trascritta in tanti fogli. Non avevo mai visto un vero libro, andava bene. Partii.

Era il mese del tramonto, ma dietro di me le canne dei cantieri illuminavano per kilometri, col loro fuoco. Non rimasi mai al buio, non potevo avere paura. Dove l’orizzonte era più verde, lì mi dovevo dirigere.

Dopo una certa altura, anche l’ultima gru svanì alle mie spalle. Comparvero le stelle, poche e luminose come pianeti: sembravano troppo vicine, così tenni basso lo sguardo.

 

**

 

Camminai per qualche ora, finché non apparve il lago. Era come una cava, ma colma d’argento e senza case come la mia intorno. Giunsi in fretta alla riva, strappandomi le calosce.

Pjasino lo vedevo sempre da lontano, nelle gite con mio padre; ad un metro dal mio stivale era un gigantesco animale sopito, caduto dallo spazio. Custodiva la leggenda di mia mamma come un antico dio confessore, votato a un silenzio freddo e celeste. Era così diverso, così diverso da vicino. Sentivo che non avrei più potuto andarmene. Capii perché neanche lei lo fece mai, avevo indovinato. Sorrisi, fiero della mia mamma.

Avevo freddo; non sapendo accendere un fuoco continuai a camminare lungo il bordo del lago. Il piede sinistro mi faceva male, finché non sentii ballare una melma fra le dita e il puntale e il freddo non me lo scaldò. ‘Con queste tracce che lascio, forse mi trova lei per prima.’ Sentii un animale agitarsi in lontananza.

Tutto era verde e io cominciai ad avere fame.

Mi sedetti su un tronco, poco più al buio del bosco, stesi una gamba e tirai fuori i miei sirniki. Ne avevo cinque, tutti appiccicati per il freddo: ne staccai due e diedi un morso. La panna diede una scossa dietro i denti in fondo, per lo zucchero. Mi guardai intorno, certo di non essere solo, felice. Scaldato, mi addormentai guardando i rami in alto. Non mi sforzai più di ignorare quelle stelle così grandi, cercavo piuttosto di trovare un nome per quel colore nel cielo ma non sapevo abbastanza parole. Forse lilla, dormiveglia, buio boschivo…

‘La notte non è mai lunga. La notte è un rumore.’

Crac.

Aprii piano gli occhi, incollati dal ghiaccio. I rami scheggiavano il cielo, ora leggermente più scuro. Cercai di muovermi piano, alzando la mano per grattarmi il collo, sepolto nel cappotto di mio padre. Girai la testa.

Mia mamma era su un albero non lontano.

Le sorrisi, ma non osai muovermi. Ho temuto che non mi riconoscesse. Era tesa, le dita scavate nella corteccia che la teneva in alto. Piccoli occhi neri su un viso bianco macchiato nella fronda. Io le sorrisi, ma non rispose. Tirai fuori i tre sirniki. ‘Vieni. Sono io. Sono venuto a trovarti.’ Lei mosse la testa, poi sparì nell’ombra. Non capivo per quale motivo, eppure ero agitato. Diedi un piccolo morso ai tortini di panna e tornai al lago.

 

***

 

Raggiunto un gigantesco promontorio, la riva opposta era molto vicina: ogni tanto, mia mamma appariva nitidamente per brevi istanti, magra e bianca.

Avevo indosso le sue scarpe: le avevo trovate sulla mia strada una o due ore prima.

Quando facevo per attraversare il lago ghiacciato, lei si piantava sulla sponda, fissandomi seriamente coi suoi occhi neri.

Iniziavo ad essere stanco. Iniziavo ad offendermi. E a guardarmi indietro, verso l’orizzonte roseo delle fiamme di Noril’sk.

Il promontorio cominciava a rientrare e la riva di mia mamma ad allontanarsi. Spazientito, mi sedetti su una roccia coperta di vecchi licheni. ‘Mam! Io ti ho portato questo. Grazie, grazie per le scarpe, ma io ho una cosa per te. Ti avvicinerai’, presi i fogli fradici del mio libro, ‘lo so, tu ti avvicinerai per sentirmi.’

Cominciai a leggere. Era un racconto. Man mano che procedevo, vedevo svelarsi mia mamma, sul lago. Quando arrivai a metà, si appoggiò sul ghiaccio ad ascoltarmi. Sembrava impossibile, eppure mi sentiva.

‘Non ricordo le tappe del mio ritorno, fra i polverosi e umidi ipogei. So soltanto che non mi lasciava il timore che, all’uscire dall’ultimo labirinto, mi circondasse nuovamente la nefanda Città degli Immortali. Null’altro posso ricordare. Quest’oblio, ora invincibile…’

Mi fermai. Guardai mia mamma stesa nel crepuscolo. Una piccola formina crepuscolare, immobile, fissarmi.

Presi coraggio e posi il primo passo sul lago. Sentii il rumore di una piccola crepa. Più mi avvicinavo a lei, più sentivo freddo, mentre il fuoco del cielo della città, lontana, divampava oltre le conifere.

Il ghiaccio intorno a me divenne chiaro. Il lago mi accerchiava coi suoi rumori.

La notte è solo un rumore’, ripensai.

Mia mamma si voltò, poco, verso di me. Ero vicino a lei. Presi gli ultimi sirniki e mi avvicinai ancora.

Il suo petto era gelido. Gli angoli della bocca solcati da rughe. Mi baciò la mano.

Qualcosa si spezzò alla riva. Lei si alzò, a piedi nudi sulla lastra: mia mamma era altissima, mi guardava dall’alto come un essere siderale, fine come un fusto del deserto. Non dissi nulla. Il suo sguardo severo mi colpì a tal punto che iniziai a piangere. Come l’arto di un ragno calmo e paziente, la sua mano soffiò sul mio braccio; passava le dita cerate fra le pieghe del cappotto. Uno stormo di uccelli proveniente dalla città sorvolò il suo alto capo sporco. Gli occhi neri come l’acqua che doveva essere sotto di noi. Strinse piano la mano.

‘È di tuo padre, questo cappotto.’

Il tremotio di altre crepe intorno.

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