Manifesto contro il cassetto

Il peggior nemico della scrittura è il cassetto.

Esistono persone che scrivono, che praticano l’attività della scrittura – dedicandole spesso un tempo considerevole – e che desiderano essere lette, farsi conoscere, magari pubblicare. Eppure, se provate a chiedergli di leggere qualcosa di loro, vi sorrideranno e cambieranno discorso. È inutile che insistiate! Svicoleranno, prenderanno tempo, prometteranno, non manterranno. Sembrano essere sempre in attesa: di tempi migliori, di ‘ispirazione’, di mezzi migliori forse. Le fatiche di questi derelitti sono relegate in un mondo chiuso e invisibile, un limbo segreto dal nome banale: il cassetto, appunto.

Ne conoscete, voi, di questi scrittori da cassetto? Il loro lavoro, che sia un romanzo, una commedia, dei racconti, li assorbe magari per anni, eppure voi non lo leggerete mai, perché loro – i cassettisti – non sono in grado di staccarsene, di licenziare i loro personaggi, il loro stile, la loro punteggiatura. E allora se ne stanno lì, a foraggiare le loro creature, farne a pezzi una nidiata e ricominciare a crescere la prossima: sempre nel cassetto. La rilettura, la riscrittura, i tagli – fasi fondamentali dello scrivere – diventano per loro azioni cicliche, paralizzanti.

Ma perché, ci si può chiedere! Sono forse accoliti di un terribile demone bibliofilo, che gli impone ingenti sacrifici di tempo e d’inchiostro? Sono forse pazzi?

Forse.

Sì, è vero: non tutto ciò che si scrive è pensato per essere pubblicato ed è bene così: la categoria degli scrittori che scrivono per sé è legittimissima e lodevolissima. Ma non è di loro che parlo: il loro è un rapporto sano e distaccato con il cassetto. Per loro il cassetto è nient’altro che il vano di un mobile.

I miei cassettisti, invece, hanno il desiderio e il bisogno di essere letti. E lo meritano! Infatti a lavorare di lima hanno acquisito qualità e gusto: la scrittura è il loro laboratorio artigiano, sono dei cesellatori! Meritano di essere letti molto più di altri che, invece, possono mandare testi in stampa a ciclo continuo, hanno migliaia di lettori, sono prodotti e distribuiti in modo rapido e agevole.

Ma allora vuoi fare un discorso sociale? Non è più della cura di sventurati autori sociopatici, che stai parlando!

Sì. Voglio fare un discorso sociale. È un manifesto, o no, quello che state leggendo?

La qualità è cosa rara. Inadatta, pare, alle attuali condizioni (iper)produttive, da cui è spesso soffocata. Con essa il sapere tecnico, artigianale, l’amore per la cura, l’educazione al gusto vengono sviliti (il fenomeno non riguarda solo la scrittura, ed è certamente sovranazionale). Per di più sulla scrittura e l’editoria aleggia un immaginario negativo e soffocante, quello di un mercato-giungla impenetrabile e spietato diviso tra chi ‘ce l’ha fatta’ e chi resta un povero cristo. Una prospettiva poco invitante, anche se, certo, non del tutto virtuale. Ah, già! In tutto questo nel nostro paese si leggono sempre meno libri e un allarmante percentuale della popolazione italiana non ne legge proprio.

E che cosa può farci un manifesto?

Una proposta.

Credo – crediamo (un manifesto si scrive alla prima persona plurale!) che un progetto come fucina narrante, una piattaforma collettiva che produce e distribuisce gratuitamente racconti, nel suo piccolo, possa rappresentare una modalità alternativa di proporsi ai lettori; che possa affermare, soprattutto, un’idea di scrittura diversa, sana e meritevole; che sia, certamente quindi, per converso, una forma di resistenza culturale.

 

Riccardo Tabilio