Un letto di ghiaccio

Riccardo Tabilio

Mio nonno morì che io avevo diciassette anni, un mattino d’inverno prima dell’alba.

La baita era isolata: il sentiero per il fondovalle era interrotto per la neve caduta. Portare giù nonno, perché fosse sotterrato nel cimitero, con la messa e il funerale, era impossibile. Mio fratello Ernesto, che avrebbe avuto la forza di caricarsi nonno sulle spalle fino al cimitero, era stato chiamato al fronte. Di lui come di papà in America, non avevamo notizia da mesi. Nella nostra valle pochissimi erano rimasti: gli uomini erano a combattere, donne e ragazzi in Boemia, deportati per evitare il rischio che qui sul confine si fraternizzasse col nemico. Oltre a qualche imboscato erano rimasti i vecchi, quelli che non avrebbero sopportato la durezza del viaggio. Tra loro c’era mio nonno, morto in grazia di Dio, dopo lunghi tormenti.

Decidemmo di seppellirlo su da noi.

Dietro la baita c’era una roccia piatta che pareva un altare: mamma ed io scavammo una fossa ai piedi del sasso. Il terreno era gelato e duro e ci volle tutta la giornata perché fosse fonda abbastanza. La sera avvolgemmo il nonno in una bella coperta ricamata e lo portammo fuori, steso sulla slitta della legna. Era stranamente leggero, ricordo, come se la vita andandosene avesse lasciato una cavità vuota nel suo corpo. Di fuori era già venuto buio. Nell’oscurità la fossa che avevamo scavato pareva senza fondo: dentro era colata acqua e aveva fatto un letto di fango, lurido e freddo. Immaginai i vermi sul fondo, nudi e famelici, che si contorcevano silenziosi.

Ci parve peccato calare nonno in quella buca miserabile e odiosa, senza cassa e senza un cuscino di seta per la testa. Allora tornammo in casa e lo rimettemmo sul letto, nella stanza in cui era spirato. Tenevamo le finestre spalancate, nonostante il freddo, perché si faceva così: mamma ed io dormivamo nella cucina, sulle panche vicino alla stufa. Quella prima notte senza nonno fu lunga e penosa. Sentivo un senso di abbandono e di sconfitta: ogni speranza era alle spalle, così mi pareva. Sognai nonno ritornato vivo: mi chiamava dalla sua stanza, ma di qua non lo sentivamo; e poi c’era mio fratello, nel sogno: scavava una fossa lunghissima nella neve insieme ai compagni, chissà dove sul fronte orientale, perché la guerra era persa e gli toccava di morire.

Quella notte le montagne tremarono come i vetri.

Accaniti gli Austriaci buttava fuoco contro gli Italiani che, dal canto loro, rispondeva a suon di cannoni e cariche; ma nessuno riusciva a svalicare di là dalla barriera del nemico e i morti si accumulava nei valloni e sulle crode. Attraverso la terra e la roccia il boato delle bombe correva più lontano che nell’aria e, certe volte, sentivamo le finestre che batteva come sonagli.

Il giorno dopo, mamma ed io, decidemmo che nonno meritava una giusta sepoltura giù in paese. Bisognava aspettare che la neve sciogliesse e la strada fosse praticabile; nel frattempo lo avremmo messo sul tetto, così che fosse al sicuro dalle bestie selvatiche, sotto la neve, che di quella ce n’era tanta, era l’unica cosa che non mancava. Il gelo lo avrebbe conservato senza danni fino alla fine dell’inverno: la baita, di quella stagione, sole non ne prendeva mai.

Salii sul tetto e scavai una buca nella neve, poi con l’aiuto di mamma portammo nonno su. Lo stesi sui coppi bagnati, ci appoggiai sopra una coperta, e tutto intorno feci un cerchio di sassi, per tenerla ferma. Infine coprii tutto con la neve e venni giù.

Così, nelle settimane successive, aspettando che la stagione mutasse, il tetto ospitò il riposo di mio nonno morto.

Lentamente, il pensiero della morte lasciò la baita. Riaprimmo la camera da letto e chiudemmo le finestre; io andai nel bosco a svuotare il materasso della paglia, impregnata di morte e di agonia; la fodera la buttammo nel fuoco e cambiammo anche le tavole del letto; bruciammo dei rami di alloro nella stanza e sostituimmo lenzuoli e coperte. Perché era scampato a quella sepoltura infame, nonno sembrava tornato tra noi. Adesso, nel suo ricovero di ghiaccio, sul tetto, era grato a mamma e me che non lo avevamo messo sottoterra. Con mamma si diceva cose così: «io vado per legna, voi restate qui»; era un parente sopravvissuto alla sua sorte spaventosa e tornato a casa, tra i familiari, silenzioso e benigno.

Passarono le settimane, ancora altra neve scese sulla baita. La guerra sembrava sempre più furiosa, le mine fracassava le montagne intorno alla valle solcandole di lunghe frane. Gli Italiani scavava corridoi nella roccia, sotto le posizioni nemiche, a forza di esplosivi, con l’idea di farle saltare in aria da sotto. Gli Austriaci, però, sentivano i movimenti del nemico e scavavano una galleria ancora più sotto, per far saltare quella degli Italiani prima che quelli potesse farlo con loro. Il gioco andava avanti così, per metri e metri di profondità.

Una notte terribile le bombe presero a cadere dalle nostre parti. Il bosco scoppiava sotto i colpi del mortaio. Mamma aveva spento tutte le candele; a far luce restava soltanto il lume delle ultime braci nella stufa, ma, nonostante il gelo, non ci azzardavamo a stizzare il fuoco per paura che col fumo che usciva dal camino ci vedessero. Cercavamo di immaginare cosa stava succedendo: forse gli alpini eran riusciti a prendere Cima Alta, il nemico aveva sfondato, e quella era l’artiglieria che preparava la strada all’invasione. In verità non avevamo idea di niente, ma eravamo certe che chiunque fosse passato qui da noi – italiano o austriaco – se scoprivano che c’era gente alla baita per noi finiva male. In guerra cortesia non ce n’è, da nessuna parte.

D’improvviso la terra tremò, una pioggia di sassi colpì la baita, fitta come grandine. Dentro casa non si riusciva a parlare dal rumore che c’era. La montagna sopra di noi ci stava crollando addosso, questo pareva: che la montagna veniva giù a pezzi e che la casa stesse slittando a valle, come la neve da un tetto quando è venuto caldo. Abbracciai mia madre. Pensai a nonno, là sopra, nel suo letto di ghiaccio.

Non so quanto andò avanti il bombardamento. Il resto lo ricordo come un sogno. Uscivo fuori. Alla prima luce del mattino, tra i larici spogli venivano su soldati, fucile in spalla. Tra loro c’erano anche alcuni disarmati, che pareva emigranti. Io li guardavo uscire dalla nebbia dalla veranda della baita, ma i soldati non mi vedevano. Erano ciechi e camminavano su per la montagna, senza fretta, alla spicciolata.

«Ernesto!» gridai, quando mi parve di distinguere mio fratello. E già gli correvo incontro. Ma quel soldato che tanto somigliava a Ernesto era uno sconosciuto, non mio fratello, non quel fratello morto sul fronte che non avrei mai più visto. «È finita la guerra? – domandavo ai soldati – Si torna a casa?» Ma nessuno mi rispondeva, tutti camminavano muti. Vidi, carico di valigie, mio padre che tornava a casa, ma anche lui era uno sconosciuto, sordo e muto: non sentiva niente e tirava dritto per il suo sentiero. Ero disperata e piangevo: piangevo senza più speranze, sprofondata nella neve grigia: «Questi sono i morti! I morti!»

«Sono i morti» disse nonno, dietro di me, poggiandomi una mano sulla spalla: «Tu piangili, perché è giusto piangerli.»

Mi voltai. Era in piedi, bello e forte, come prima della malattia.

«Dio vuol così: c’è chi muore e chi la scampa. Quelli che scampa piange quelli che sono andati». Nonno mi accarezzò la testa: «Sii felice, figlia mia.»

Ore dopo mamma mi trovò davanti casa. Mi aiutò a tirarmi su. Indicò la montagna, alle spalle della baita. La frana era scesa lungo la costa del monte, travolgendo gli alberi ed era arrivata fino a quella piccola costruzione. Poi si era fermata. La ghiaia e la polvere avevan dipinto di grigio il tetto dove dormiva mio nonno, ma per miracolo, la baita, e noi dentro, non era finita sottoterra.

So questo: dal suo letto di ghiaccio nonno, a cui mamma ed io avevamo risparmiato una tomba di fango, quando la montagna ci stava cadendo addosso, ci aveva salvato la vita.

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