Incontro a Overbrook

Riccardo Tabilio

Quando scese da cavallo a Overbrook, Conor Mahoney aveva addosso la polvere di cinque settimane di viaggio. Il caldo del deserto gli aveva dato al cervello: aveva mal di testa, non riusciva nemmeno a pensare. Le ante della locanda gli si chiusero alle spalle. Il tetto coprì finalmente il fottuto sole californiano.

«Signore?»

Mahoney non aveva ancora abituato gli occhi allo scuro che il piccoletto aveva preso a girargli intorno: «Signore! Come posso aiutare? Mangiare? Tequila? Puttana?»

Non ho soldi per te.

«… Alla merceria di MacPherson vendono l’oppio! Desiderate farvi una fumata?»

Dove?

«Ah, vicino alla baracca del postale! È molto vicino, signore, ma qui a Overbrook ci si perde facilmente. Specie uno straniero!»

Il messicano aveva destato l’interesse di Mahoney.

Come ti devo chiamare?

«Horacio, signore. Al vostro servizio.»

 

Alle cinque tra le case di Overbrook si sparava, ma la cosa durò solo pochi minuti. A terra si contarono cinque messicani del luogo e uno straniero. Alle sei il reverendo scuoteva la testa sui morti. Entro le sette, bestemmiando, qualcuno li aveva trascinati nel cimitero. Al calar del sole della sparatoria erano rimaste tre croci senza nome più una manciata di buchi qua e là.


«Quello che lei sta fumando è la novità del secolo, la delizia della Londra più raffinata: impossibile non esserne estimatori ed amanti»: l’inglese che lo vendeva parlava, parlava, parlava. Sdraiato su un canapè, Mahoney inspirava i vapori dell’oppio da un lungo bocchino d’avorio. Era l’unico ospite della casa. Ogni boccata si portava via un pezzo della sua testa, la stanchezza, i pensieri, come schegge di legno marcio nella corrente.


«Qua nessuno lo conosce e nessuno piange, al suo paese nessuno lo saprà: tutti sono contenti!»

Horacio, il messicano, spiegava al suo complice il bello di ammazzare uno straniero: «Poi facciamo a metà.»

Il cavallo lo prendo io.

«Perché?»

Perché io sparo.

 

Davanti agli occhi di Conor Mahoney scorrevano le immagini del passato. Una vita intera alle spalle: l’Irlanda, Sinead, capelli rossi, sottili gambe bianche, dolce Sinead. Cosa ne è stato di te? Papà Mahoney. Mamma. Gli amici di Cork! Come se fossero morti. Drogato dall’oppio Mahoney, di solito poco sentimentale, piangeva come un disperato e rideva allo stesso tempo, possedeva la rossa Sinead sull’erba e piangeva sua madre sul suo letto di morte, il tutto senza muovere un muscolo.

 

I messicani entrarono nella fumeria dell’inglese, che era situata in una stradina secondaria nel centro di Overbrook. MacPherson, il padrone di casa, con i suoi modi squisiti, lasciò entrare i due uomini armati senza dire una parola. Entrarono nell’anticamera: a un cenno dato si gettarono oltre la tenda divisoria, agguantarono Mahoney e lo trascinarono fuori, in strada. Questi non disse niente: muoveva le braccia a caso mugolando.

«Ah! È completamente fatto!» rideva il piccoletto.

L’altro messicano, quello con la pistola, rovesciò Mahoney nella polvere, disgustato.

«Non servirà nemmeno sparargli, Esteban! Non capisce niente, il drogato! Uh, guarda! È armato! Ora vediamo in tasca cos’altro ha.»

Il piccoletto si mise a frugare tra i vestiti dell’uomo esanime.

L’altro, che adesso ha anche un nome, Esteban, mise mano alla pistola, la puntava sulle ginocchia della vittima, sulle caviglie, sul basso ventre, pregustando un’esplosione di sangue. Se la godeva proprio, il maiale.

«Comunque gli sparo lo stesso.»

 

Mahoney riprese conoscenza istantaneamente, chissà perché. Era a terra. Il piccoletto della locanda era sopra di lui e frugava tra i suoi indumenti, mentre l’altro messicano alle sue spalle caricava con cura una pistola a tamburo. Il piccoletto, intanto, aveva sfilato la sua dalla fondina. Mahoney semplicemente gliela riprese e gli sparò addosso. La teneva carica. Il piccoletto urlò terrorizzato e si gettò addosso a Esteban. Aveva una fontana di sangue, al posto della mano. Il suo compare sparò. Mahoney prese un colpo nella coscia e forse un altro da qualche parte, ma riuscì ad alzarsi. Non sentiva niente: l’oppio gli riempiva le vene. Si riparò dietro l’angolo dell’edificio, appiattendosi contro il muro. Così fece il messicano chiamato Esteban. Horacio intanto era scappato. I due, Mahoney e il messicano, presero a girare intorno alla merceria dell’inglese rincorrendosi come bambini. All’improvviso si trovarono uno di fronte all’altro. Esteban provò a sparare. Mahoney non ci pensò nemmeno: gli saltò addosso, come un animale famelico. Il messicano proprio non se l’aspettava. Lui gli strinse le mani al collo, la faccia di Esteban si coprì di rosso. Strano, tutto quel sangue. Quando l’ebbe strangolato si rese conto che era il suo, gli usciva a fiotti dalla mandibola: un colpo di pistola del messicano gli aveva portato via un pezzo della guancia. Amareggiato, deluso e furioso lo prese a calci con forza, poi si impadronì della sua pistola. La campana della chiesa batté le cinque. Puntuali le colt ripresero a sparare. Mahoney imprecò, si mise al riparo e sparò nella direzione da cui venivano le pallottole. Ne ammazzò parecchi, va detto a suo merito, nonostante lo stordimento e le ferite. Stese anche Horacio il piccoletto bastardo, a cui saltò via qualche altro pezzo, ma alla fine finì sulle ginocchia. Prima di cadergli addosso, a sfregio, sparò nella faccia di Esteban.

 

Tardi, perché è meglio contare i morti che rischiare di farne parte, giunse lo sceriffo con i suoi. I messicani sopravvissuti si erano tolti di torno. Jackson, così si chiamava lo sceriffo, non fece altro che mandare qualcuno a chiamare il prete, non prima di aver svuotato le tasche ai morti.

«Sottoterra stai a posto con niente diceva non senza acume lo sceriffo.

Poi fu il turno del prete, come si diceva, e infine quello del becchino a cui toccò la fatica di caricare gli ammazzati su un carro e trascinarli alla fossa.

 

Il becchino Christiansen aveva deciso di sotterrare i morti due a due, buttandoli uno sopra l’altro. In questo modo avrebbe riempito tre fosse al posto di sei, e avrebbe risparmiato un mucchio di fatica per scavare la buca dei prossimi. Avrebbe risparmiato tre fosse, per la precisione. A Mahoney, neanche a dirlo era toccato di avere Esteban, il messicano sadico, come cuscino. Di nuovo si risvegliò all’improvviso, con la faccia coperta di terra. L’effetto dell’oppio era terminato. Annaspando alla cieca si liberò dell’abbraccio di Esteban e sbatté via la terra che lo copriva.

Aiuto, urlò.

Christiansen si rese conto che uno dei morti non era morto.

Mahoney si liberò gli occhi dalla terra e vide il becchino che correva. L’ultimo sole del deserto gli bruciava gli occhi come il sale. Fottuto sole. Ma l’aveva sfangata, era vivo. Provò a tirarsi su.

Aiuto, Dio dannato!

Christiansen stava tornando con un badile. Arrivato al bordo della fossa si rivolse a Mahoney: «Muori davvero, stavolta, sì?»

Mahoney lanciò uno sguardo al ragazzo: figlio di troia.

Il becchino sollevò l’attrezzo in aria come il prete il calice e poi lo calò sulla testa dell’irlandese spaccandogliela.

Conor Mahoney morì senza un ultimo pensiero che valga la pena riportare.

Scrivi commento

Commenti: 0