Rapina al treno!

Stefano Parisi

È universalmente noto che ben poche persone sceglierebbero una vita di espedienti e costante pericolo ad una di agi e ricchezze, e Terry McMillan non si considerava certo una di queste. Ma quando sei il figlio bastardo di un ladro di cavalli e di una cameriera, l'unico modo per arrivare alla seconda passa ineluttabilmente attraverso la prima.
C'è da dire che Terry ci aveva provato, a fare l'onesto: era finita che per poco i chiodi che un battiferro gli aveva insegnato a fabbricare non fossero stati usati per la sua stessa bara (la vita di città implicava una quantità inquietante di fughe precipitose da risse e sparatorie). Fu così che Terry si ritrovò in combutta con un fabbro e un uomo intrappolato nel corpo di una donna che sparava meglio di un soldato e seguiva piste come un dannato Apache. Rubare i cavalli si era rivelato meno pericoloso che ferrarli e anche molto più remunerativo, a saperlo fare bene; un buon indice del successo era la quantità di proiettili che gli allevatori cercavano di scaricargli nella schiena: se non ce n'erano, allora il furto era stato fatto a regola d'arte.

Come tutte le cose buone, l'epoca delle mandrie libere finì e Terry e i suoi dovette cercare qualcos'altro su cui mettere illecitamente le mani. Per un periodo pensarono al contrabbando, ma ne furono dissuasi da alcune figure misteriose che li convinsero rapidamente ad abbandonare un campo d'affari già sovrappopolato. La soluzione giunse con il commercio su rotaia, sempre che si trovasse un modo per convincere i macchinisti a fermare la locomotiva nel bel mezzo del nulla.
Così, tutti e tre intenzionati a fermare il treno blindato che stava trasportando un carico d'oro da Los Angeles ai forzieri di Washington, Terry, Cindy e Joe cominciarono a mettere insieme un piano.

 

***

 

«La cosa sta diventando grottesca, Cindy. Continuo a chiedermi come sia possibile che non ci abbiano ancora scoperto» disse Terry, sputando a terra e seguendo la donna tra le rocce.

«Smettila di piagnucolare o giuro su Dio che ti pianto una pallottola nella schiena» fu la roca risposta.

«Non bestemmiare» rispose Terry dopo qualche istante, solo per il gusto di avere l'ultima parola. E comunque il capo era lui, e l'ultima parola era sua di diritto.

Mentre procedevano nella gola, il rumore dell'accampamento più avanti si fece udire, prima flebile, poi sempre più forte. La forra sbucava in una specie di pozzo ampio, un buco ombroso nel bel mezzo del deserto nella quale la banda aveva piantato le tende, o meglio, costruito il proprio covo.

Terry passò in mezzo ai propri compagni, scelti uno per uno tra il meglio della farabutteria.

«Che cumulo di rifiuti, cazzo, Cindy - disse lui, sussurrando - messicani, indiani, francesi, siamo la barzelletta dei tre Stati»

«Ieri è arrivato Cho» gli disse lei, mentre raggiungevano la baracca in cui c'era il laboratorio. Un frastuono risonante usciva dalle finestre senza vetri.

«Chi è Ciò? Ma non dovrei essere io a decidere...»

«È quello delle bombe, il cinese dell'altra settimana»

«Cinese. Adesso ci manca solo il negro...» cominciò Terry, ma Cindy lo azzittì con una gomitata nelle costole e uno sguardo infuocato.
In effetti nell'angolo da cui proveniva la parte peggiore del rumore era accovacciata una specie di montagna bugnosa color inchiostro e solo ad una seconda ispezione Tracy si rese conto che si trattava di un uomo. Il negro L'afroamericano tuttavia non diede alcun segno di interessarsi dei discorsi dei due appena giunti, né di aver sentito, o capito, una sola parola e di questo Tracy ne fu grato, perché considerata la potenza che l'uomo imprimeva ai colpi di martello, non si sarebbe dubitato un solo instante nel crederlo discendente di qualche tribù equatoriale che si guadagnava il pane accoppando i rinoceronti a manate.

Cho era un cinese piccolo e giallo, sputato dallo stampo con cui evidentemente fabbricavano gli uomini dall'altra parte del Pacifico. Con un accento incomprensibile mostrò a Terry le bombe e tutto il resto.

Quella sera, solo con Cindy e il Joe il fabbro, Terry rifinì i particolari del piano. Le bombe vanno qui, il treno si fermerà qua, li sorprenderemo così, porteremo il bottino fin lì... ammazzeremo questi idioti e scapperemo oltre il confine con tutto il malloppo. Quattro mesi di fatiche per guadagnarsi la libertà eterna.

«Mi piacerebbe vedere la faccia di Finch quando verrà a sapere perché non siamo più nel business – risero assieme – possono continuare a rubare galline finché vogliono in questo schifo di deserto. Dovranno cominciare a sfottere i cactus...»

L'indomani si rivelò essere una giornata splendida, che per un rapinatore nel deserto significa nuvolosa: fresco e niente riflessi sui fucili, che sono sempre quelli che mandano a monte i piani, soprattutto quando hai una banda di tagliagole monomaniaci che parlano a malapena una lingua umana la quale, per inciso, di solito non è la tua.

Fatto sta che il treno, atteso per le dieci del mattino, alle quattro del pomeriggio non si era ancora fatto vedere; ma considerata la frequenza dei guasti, nessuno se ne preoccupò

Alle sette e mezza, Terry era furibondo e quasi sparò al messicano dopo che questi gli sputò una serie di insulti un una specie di spagnolo e se ne andò.

Alle otto e un quarto, assalirono un terrorizzatissimo sedicenne che guidava una decina di mucche da chissà-dove-ville a qualche-altra-parte-town, il quale eroicamente riuscì a dirgli che il treno era stato fermato e rapinato alle dieci e un quarto quella mattina, venti miglia più a ovest.

«Rapinato? Da chi?» aveva chiesto Terry, mettendo mano alla pistola.

Dalla banda di Finch, ovviamente.

«Una compagnia di soldati era nelle vicinanze, hanno visto il fumo e sono accorsi... hanno preso Finch alle due e mezza e li hanno ammazzati, giù vicino a Backwater».

Terry se ne andò con le mucche del ragazzo; o meglio, fu trascinato via schiumante di rabbia, dopo aver sparato a due capi in un accesso di furia inenarrabile.

Joe guardò Cindy «Galline?» le chiese.

Cindy sospirò «Galline» rispose, sospirando.

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