Nei paesi lontani lontani e in quelli vicini vicini, c’è sempre una notte così. Una notte blu scuro, una notte primaverile, una notte pacifica. Si è fatto tardi e la mamma sospirava dolcemente. La porta è chiusa, le luci spente, il papà a letto, le lenzuola pulite e stirate, il vero silenzio, quello che ti avvolge quando gli apparecchi elettronici si raffreddano e tacciono, quando la casa è sicura, l’amore presente, il futuro è domani e in fondo la vita è bella.
La mamma entrò nella cameretta del suo unico figlio, otto anni e una stanza che odorava di libri e giocattoli ad interfaccia digitale; una lucina da notte, azzurrina e opaca, rischiarava appena l’aria. Il bambino guardò la mamma e lei si sedette sul bordo del letto, appoggiò una mano sulla coperta di Spiderman. Carne della sua carne, sangue del suo sangue, l’agrodolce aroma della sua pelle, leggermente sudata, avvolta da strati di piccoli indumenti puliti: lino, cotone, l’igienica fragranza della copertina sintetica. Il vago istinto di mangiarlo di baci con sufficiente violenza da farlo tornare da dove era venuto, inghiottirlo attraverso la pelle delle labbra, riassorbirlo in qualche modo elementare all’umida unità tra madre e figlio.
«Dobbiamo parlare delle coperte?» disse il bambino, battendo le manine, fissandola con occhioni dolci.
«Cosa c’è tesoro? Non ti piace la copertina?» chiese la mamma.
«È francamente ridicola. Spiegami il senso di una coperta di Spiderman. Cosa significa quel 'di'? Cosa tentano di venderci?»
«È bella! A me piace.» disse la mamma ridendo.
«Nel senso che è ‘di’ proprietà di Spiderman? Nel senso che avvolgendomici posso acquisire qualche sorta di potere? È la sua coperta ufficiale? Ha un ufficio brevetti, Spiderman? Un ufficio che registra gli oggetti che sono effettivamente a suo nome ed altri, apocrifi, che non lo sono, che speculano sulla sua immagine? Spiderman che fa segnalazioni al fisco: signori, c’è una fabbrica di cinesi che fanno coperte con la mia immagine, voglio un'indagine, voglio i danni, voglio un articolo sul giornale per chiarire ai bambini che lì non c’è niente di mio.
La mamma sorrise, si guardò alle spalle.
«Va bene tesoro. Domani la cambiamo. Ora ti racconto la tua storia e vai a nanna, che oggi è stato un grande giorno per te e domani vai a scuola. Sono così orgogliosa del mio piccolo», e gli strizzò una guancia, il bambino impassibile, rassegnato al potere delle proprie guancette paffute.
«Sono stato accettato al Mensa. Un gruppo di bambini prodigio che riconosce altri bambini prodigio. Non c’è alcun merito, non ho fatto nulla. È il maestro Dusi che ha insistito.» disse il bambino.
«E io sono fiera lo stesso. Il mio cucciolo è così intelligente! Ma ora la storia, su, e poi a nanna.»
«Va bene.»
«Ma sai che Cappuccetto Rosso non te l’ho mai raccontata?»
«Oddio.»
«Suvvia, non fare così. Io, Stato e Rivoluzione, mi rifiuto di leggertelo. Non è per la tua età!» disse lei mimando un broncio esagerato.
«È Lenin, mamma.»
«Cappuccetto Rosso. Fine della discussione. Poi a nanna. Questa la ricordo a memoria, allora: tanto tempo fa, in una terra lontana lontana, viveva una bella bambina dai riccioli d’oro...»
«Un momento.»
«Che c’è?»
«Perché?» disse lui.
«Perché cosa?»
«Perché la storiella. Perché la lucina da notte. Perché questo rituale. Non è solo la tua voglia di conformismo. C’è qualcos’altro.»
«Non cominciare, cucciolo mio. La mamma ti vuole tanto bene, ma lo sai che la fai piangere quando parli così. »
«Io ho paura del buio, come tutti i bambini: non voglio addormentarmi, c’è qualcosa nel mio corpo che si ribella. Ora di andare a dormire. Mi sembra una frase terribile, qualcosa che direbbe uno svedese in cappa nera su di una spiaggia deserta, uno sconosciuto con frasi profetiche e connessioni pagane.»
«Sei un bambino, è normale. I bambini fanno i capricci per andare a nanna, è risaputo, si dice in giro. Sono cose che la gente sa. Volete giocare e mangiare gelati, guardare i cartoni, correre per casa. Non avete disciplina. Tutto qui. Ah, la bambina: viveva in una bella casetta con la mamma e con il babbo, in un villaggio circondato da una bella e misteriosa foresta...»
«No no. Fermi tutti. L’energia, gli ormoni, ok. Ha senso. Ma c’è dell’altro.»
«...un giorno la bella bambina dovette recarsi dalla nonna, che era tanto malata e aveva bisogno che qualcuno della famiglia andasse a portarle...»
«Posso chiederti una cosa?»
La mamma aveva gli occhi rossi, si guardò alle spalle, guardò il bambino, allungò le dita sulla coperta. Voleva toccarlo.
«Dimmi tesoro.»
«Tu lo sapevi, vero?»
«Cosa?»
«Che sarei morto. Che morirò, prima o poi. Lo sapevi, prima, prima di decidere di crearmi, prima di iniziare tutto questo. Andare a dormire, che brutta espressione. Dormire è un po’ morire, diceva l’inglese. »
La mamma fissò il bambino, gli occhi spalancati, immobile.
«N... non si parla di queste cose. Tu sei qui, io sono qui. Io morirò tra cent’anni, tu mai. Hai otto anni. Punto.»
«E allora perché?»
«Perché cosa?»
«Perché farmi, crearmi. Perché iniziare questo progetto che stringi sotto la coperta di Spiderman.»
«Perché ti amavo. Ti amavo da prima che tu...»
«A me non la raccontare. Non potevi amarmi, prima. Non ha nessun senso.»
«Cucciolo mio, ti ho fatto perché volevo creare un bimbo bellissimo che godesse della vita...»
«E che poi morisse»
«No!»
«E come no? No dici, ma lo sapevi. Non inizi una cosa così, senza pensarci. Tu sapevi. Tu hai pensato ‘Faccio un bel bambino, e poi morirà’. L’hai pensato e hai detto ‘Va bene. Roger. Andiamo avanti. Procediamo. Primo passo: concepimento’.»
«Non è andata così. Il tuo papa e la tua mamma si amavano. Si amano. Ti amano.»
«Secondo passo: parto. Magia. Un nuovo ciclo di decomposizione e sogni.»
«Smettila.»
«E allora perché siamo qui? Tu che mi racconti una storiella per distrarmi, per farmi raggiungere dal sonno, impreparato, ingannato, creando trame che incatenino l’attenzione di un bambino. Cappuccetto Rosso fa questo, Cappuccetto Rosso fa quello, e intanto io mi rilasso, mi spengo, scivolo nell’incoscienza.»
«Domani niente parco e niente gelato, se continui così. Adesso vai a nanna senza storia. Domani fai i conti con papà.»
«Non mi hai ancora risposto»
«Perché ti volevo. Contento?»
«Mi volevi.»
«Già.»
«Mi hai fatto perché mi volevi.»
«E allora?»
«E per questo, tra ottant’anni se sono fortunato, io passerò attraverso l’orribile esperienza di svanire nel nulla, una vita intera inghiottita dal buio, gettando nella disperazione familiari e amici, colleghi di lavoro, amanti, ex mogli, una pletora di follower su Twitter. Io, non tu. Non papà, non il nonno. Io. Perché tu mi volevi, perché mamma e papà si sono svegliati un giorno e avevano voglia di krapfen e di un bambino tutto loro. Da coccolare e viziare, da annusare, da stringere, da mostrare al mondo, sul quale riversare il senso delle vostre assicurazioni sulla vita. Da avvolgere in una copertina carina e contemplare sul vano della porta mentre parte un violino e la telecamera si solleva sulla notte piena di stelle e voi che vi mormorate il vostro amore romanzesco.»
Lo schiaffo apparve come una necessità, partì dalla mamma, colpì il bambino sulla guancia, uno schiocco sordo, pelle tenera arrossata, riverberando tra loro, troppo scioccati per rendersi conto che poteva non succedere e che invece era successo.
Dato con troppa forza.
Il bambino trattenne a stento le lacrime. La mamma desiderò tornare ad uno stato più fondamentale di materia, una roccia o un metallo leggero, svanire nell’aria senza rimorsi, come polvere incosciente.
«Scusa» disse il bambino.
«Stai bene?» disse la mamma.
«Sì.»
«Non è sangue quello, vero?»
«Tranquilla. Sto bene. Abbiamo bisogno di dormire. È stata una lunga giornata.»
«Buonanotte tesoro.»
«Lascia la luce accesa, prima di andare via. Ho ancora paura del buio.»
La mamma aveva ventinove anni. Il bambino ne aveva otto. Il mutuo durava trent’anni.
E vissero tutti così, come se niente fosse.
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vera (martedì, 26 agosto 2014 00:01)
Arrrgh, inquietante.
il Mala (venerdì, 17 ottobre 2014 19:08)
Oddio, il bimbo ultra intelligente iper critico verso un desiderio è un filino oltre le righe. Però non era brutto ma voleva essere più lungo