Safari Kitchen

Riccardo Tabilio

L’inferno è non dormire mai.

È così che va là sotto, tra i dannati, te lo dico io: niente fiamme eterne, niente diavoloni incazzati, niente Satana: niente casino. Miliardi di poveri cristi condannati all’insonnia perenne. Millenni senza chiudere occhio: gente che gira, facce stravolte, una stanchezza immane. Lo sguardo fisso sul soffitto senza sapere come cazzo fare per dormire, e così fino alla fine dei tempi, amen.

Io, in attesa della mia ora, mi sono messo a scaricare ossessivamente giochini sul telefonino. Il display della sveglia segna le 2.14. A questo punto se chiudo gli occhi vedo sedici tesserine bianche, ognuna con la sua brava letterina nera, sciorinare parole a caso.

ARATORE ARATO ARAI RAI ARIA OTARIA

Gioco di merda.

Vaffanculo.

Io mi alzo.

Me ne vado in cucina, bevo un bicchiere d’acqua e sbircio tra le veneziane: «Lampione, facciata buia, strada deserta, non mi hanno fregato la macchina, non c’è un cazzo di nessuno in giro». La luce di fuori attraversa le listarelle delle tendine e dipinge una pelle di zebra giallonera sulle pareti della mia cucina, la controparte privilegiata della camera da letto durante mie notti insonni: «Safari Kitchen!» la battezzo ad alta voce.

Sono così stanco che parlo da solo, dico cazzate sconnesse.

Voglio dormire.

Torno a stendermi. Alle 2.51 decido che non aspetterò le tre per alzarmi, vestirmi e andare a fare un giro. Con rabbiosa indolenza rimetto i vestiti di ieri e le scarpe, prendo le chiavi e vado verso la porta. Lì realizzo che perdo pezzi: la memoria va a basso regime e qualcosa del capitolo Vestirsi, appena concluso, mi sfugge. Mi sforzo di ricostruire tutti i passaggi ed estrapolo sequenze di azioni che mi sorprendo di avere appena fatto, azioni lontane, aliene, sottomarine.

Scendo in strada.

Salgo in macchina, accendo e vado verso il Quartiere Fiera: «Un posto interessante da vedere di notte.»

«Un posto interessante per andare a troie» mi sfotte l’emisfero sinistro del mio cervello, quello che mi sta più sul cazzo. Clinicamente è il principale responsabile della mia insonnia.

«Un posto a caso. Devo arrivare all’alba in qualche modo, magari con un paio d’ore di sonno: domani ho tre colloqui, stronzo.»

Parcheggio nei pressi dei palazzoni del Quartiere Fiera. Un’aiuola spelacchiata, un albero malato e una panchina danno su una piazzetta circondata dalle quattro enormi torri della Fiera, gli edifici più alti della città. Tondeggianti e bianchi somigliano agli armadi Ikea dell’Omino Michelin e non c’entrano un cazzo con il resto dell’architettura urbana: «Panchina con vista!» dico, e mi siedo.

«Bravo. Come un barbone!» sentenzia l’Emisfero Sinistro, L’E- Esse.

Non rispondo e ammiro il panorama.

«Cazzo, un gatto!»

Una cosa nera piomba giù da uno dei balconi della torre più distante.

«Altro che gatto, imbecille! Quella è una persona» mi dice l’E-Esse.

E il corpo si schianta nella piazzetta a cinquanta metri da me. Lo guardo incantato.

«Muoviti, che cazzo aspetti?»

Mi alzo barcollando per il sonno e raggiungo il caduto. È un uomo vestito elegante, il volto è intatto, ma la posa è scomposta e una macchia rossa da film di mafia si spande sotto di lui.

«Chiama aiuto, coglione!»

L’ES è sempre più incazzato e io lo odio.

Metto le mani alle tasche: cellulare dimenticato a casa. Mi guardo intorno: nessuno in vista. Su via Volgograd, un’arteria maggiore che corre in lontananza oltre gli alberi del parco, passa qualche macchina: fermare qualcuno e chiedere aiuto.

Lascio solo il morto e vado verso la strada vacillando. A metà del tragitto mi fermo e chiudo gli occhi esausto.

LAMPIONE LAMPONE AMPIO LAMPO PIO

Basta, per la miseria!

Dopo un’eternità arrivo alle porte di Volgograd. C’è una macchina accostata e un uomo nell’abitacolo. Raggiungo lo sportello: «Buona sera, mi scusi, c’è un morto laggiù alle torri della Fiera, io non ho il telefono, volevo prendere sonno, è caduto dalla finestra, ero sulla panchina.»

Il guidatore è un quarantenne brizzolato, mi guarda senza parlare e io mi accorgo che ha l’uccello di fuori e si sta masturbando freneticamente.

«È un pervertito!» mi dice l’ES ridendo come uno scemo.

«Ah» dico io e torno verso la torre.

Il morto non si è mosso. La piazzetta è desolata come un dipinto metafisico.

«Vai dai carabinieri» dice l’Emisfero Sinistro che a prendermi furiosamente per il culo – lo avverto distintamente – sta prendendo un colore rosso intenso. L’altro emisfero, quello che potrebbe salvarmi, intanto, nessuna reazione: è bianco come un formaggino.

Cerco di concentrarmi. La caserma dei carabinieri più vicina che conosco è dall’altra parte della città, nel quartiere Fossato. In macchina ci vorranno almeno venti minuti. Io ce ne metto quaranta. A ogni semaforo la testa ciondola in sincrono con il portafortuna appeso al retrovisore, un negro rachitico di peluche con il codino e gli occhi enormi spalancati. È uno stregone haitiano, aiuta chi cerca lavoro.

Non riesco a trovare la cazzo di caserma. Inizio a girare a vuoto per le strade del Fossato. L’orologio della macchina segna 3.59. La mia idea della dannazione eterna si perfeziona di minuto in minuto.

Mi ferma la Municipale: «Evviva! Gli sbirri!» sbraito in anticipo sull’ES.

Faccio un sorriso stronzo, credo, perché il Poliziotto Alfa mi chiede: «Vorrebbe soffiare qui dentro?»

«Volentieri – sorrido, inondato della luminosa beatitudine emanata dalla Legge – però c’è un morto sotto le torri della Fiera, stavo giusto cercando i carabinieri, l’ho visto cadere, sul momento ho pensato a un gatto, però poi no: non era. Forse ha la priorità!»

Alfa guarda Beta e Beta guarda Alfa.

Alfa: «Ha bevuto?»

Io, sorridente: «No!»

Alfa, fermo: «Soffi!»

Soffio, il macchinario segna zero, ma Alfa e Beta non sono convinti: «Ti sei calato qualcosa? Pasticche? Coca?»

«Guarda che le analisi del sangue dicono tutto.»

Mi sento offeso. Come è possibile? C’è un morto caduto da una torre e noi parliamo di analisi del sangue. L’ES si è fatto rosso vivo.

«Certo che no!»

I due parlano tra loro nella volante.

«Fagli i fari» dice lo stronzo rosso. «Ma sì, sfareggia agli sbirri, vaffanculo, così poi mi arrestano!»

Il poliziotto Alfa torna da me e mi molla in mano un verbale: «Ha la freccia anteriore destra non funzionante. Buona notte.»

Non dico niente e rimetto in moto. L’ES, di un rosso pulsante, si sbellica dalle risate.

Fermo davanti a un bar: «Fate la camomilla?»

«No.»

«Ok.»

Esco. L’ES torna alla carica: «E che mi dici del morto, coglione?»

«Ci sto lavorando! Vaffanculo, io volevo solo che mi venisse sonno! Domani ho tre colloqui!» rispondo accelerando al semaforo verde. Un pazzo con una berlina bianca mi taglia la strada. Inchiodo, le macchine si toccano, il mio cofano nella sua fiancata. La mia auto slitta sulle ruote posteriori, fa un quarto di giro e si ferma in mezzo alla strada. Il pazzo perde il controllo e va a sbattere contro un palo.

Mi coprono le spalle con una coperta arancione e mi danno una tazza fumante.

«È camomilla?»

«No, è tè.»

«Avete la camomilla?»

La crocerossina catarifrangente mi guarda materna e non risponde. Realizzo di avere un gran male al torace e alla schiena. La testa invece sta bene, ma l’emisfero sinistro dev’essere esploso: il black-out dopo il sovraccarico. Difatti sento che ha cambiato colore, è diventato rosso cupo e non parla più.

«Poi, dopo, c’è un morto alla fiera» annuncio ai soccorsi.

«Ti portiamo a casa. È tutto un brutto sogno.»

Recuperano il pazzo dall’abitacolo della sua macchina e lo portano via su una barella. Col carro attrezzi portano via anche la berlina. La mia macchina, invece, la spostano sul ciglio della strada. Ha il cofano deformato ma funziona.

Rispondo a delle domande e firmo della roba. Mi dicono tutti di farmi forza, che io sono nel giusto – il verde era mio – e che andrà tutto bene. Qualcuno mi abbraccia. Ricambio con cortese imbarazzo. Non riprovo più con la storia del morto.

Mi portano a casa con l’ambulanza. Salgono fino alla porta, entrano persino nella Safari Kitchen e mi mettono in mano un mazzo di scartoffie: «Buona notte.»

«Grazie, domani ho tre colloqui» replico cerimonioso. Se ne vanno.

Mi stendo vestito sul letto. L’ES è del colore spento di un vino millenario ed è inerte. Mi abbandono al sonno.

Un attimo dopo la sveglia suona.

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Commenti: 2
  • #1

    Il Mala (mercoledì, 06 agosto 2014 06:43)

    Mi piace l'onirico viaggio tra sogno e realtà di Riccardo.
    scorrevole e piacevole

  • #2

    Ada (sabato, 16 agosto 2014 14:41)

    Bel ritmo, umorismo piacevole. E ottima - e condivisibile - pure la teoria sull'inferno! ;-)