Eravamo bambini anche noi

Riccardo Tabilio

«Hanno rilasciato Fernando.»

Come un ago dentro al midollo, la voce di Luciano, l’amico d’infanzia, immobilizzò il dottor Martini sul sedile, col telefono in mano, sul ciglio di via Riva del Sile, deserta e già buia.

«Papà? Cosa c’è?»

Martini aprì la portiera e tentò di vomitare. Il freddo della laguna dentro la macchina e i conati di papà spaventarono la piccola Elena che iniziò a piangere. Dominando la nausea, il dottore chiuse piano lo sportello e si voltò verso la bambina con l’indice davanti alle labbra: papà è al telefono, voleva dire.

«Marco!»

«Son qui, son qui, porca madonna. Porca madonna!», bestemmiò il dottore.

«Porca madonna sì, Marco. L’hanno rilasciato stamattina dal carcere di Bologna: procedura accelerata, con l’indulto.»

«Papà…», provò flebilmente la bambina.

Papà la azzittì indirizzandole meccanicamente un gesto severo.

«Indulto e buona condotta: per questo lo hanno rilasciato!»

Hanno rilasciato Fernando, scandì dentro di sé il dottor Martini parola per parola.

«Buona condotta, capìo Marco? Buona condotta! Fernando xè stà bravo e non ha detto un cazzo: non gli ha detto niente di quello che è successo alla Gora. Sanno che è dentro per la storia del guardiano, niente di più. Vent’anni muto! Muto con gli altri detenuti, muto coi giudici! Però adesso bisogna che noi andiamo alla Gora, capìo Marco?»

Le parole dell’amico travolsero il dottore come una marea di fango. Il dottor Martini si aggrappò alla maniglia della portiera per resistere, il telefono ancora appiccicato all’orecchio, mentre la nausea gli affondava la testa nel magma torbido. La pioggia colpì il parabrezza come una frusta, una scarica isolata, poi il vento la spinse via. La voce finalmente gli uscì di gola: «Cosa ne sai? Forse ha confessato.»

«No, no. Altro che buona condotta, la pena di morte gli davano, se diceva qualcosa della Gora – o ci pensavano i compagni di cella, lo facevano a pezzi il giorno che è entrato. Ma bisogna che andiamo lì subito. Dobbiamo tirare su la barca.»

 

«Venezia è una città costruita sopra a una discarica!»

Sul sandolino bianco, la barchetta di nessuno che i tre amici hanno riparato e fatto propria, Marco armeggia con il motorino fuoribordo, mentre il sole stende i suoi panni d’oro sul mare piatto: «Lo sapete voialtri turisti, che andate a San Marco e vi fate il giro in gondola sotto il ponte di Rialto, cosa c’è sotto la laguna, sul fondo dei canali?»

«Merda!», interviene Luciano e ride.

La ragazza americana non capisce e scuote la testa.

Marco alza gli occhi al cielo e le fa cenno di non ascoltarlo: «Merda, immondizia. Shit. Lavatrici, bombole del gas, automobili, biciclette; se vivi in laguna dove le butti queste cose? Non c’era mica il camion che svuota i bidoni, duecento anni fa. Magari c’è anche qualche morto ammazzato.»

La biondina con gli occhiali da sole non risponde.

«Non capisce un cazzo», sentenzia Luciano.

«A cemetery of rubbish. At the bottom of the lagoon», aggiunge il terzo in inglese, dal fondo della barca pieno di bottiglie vuote, e punta il dito verso l’acqua salmastra. L’americana ride (Oh, Fernando, thank you: your friends are mocking me!) e Fernando le passa una sigaretta.

«Sei tu che non capisci un cazzo», dice Marco a Luciano che lo manda a fanculo.

Fernando rincara: «Fuck you Martini, portaci alla Gora!», suscitando le risate di Luciano e della ragazza.

La Gora di San Liberato è un porto in disuso intasato dalla rena, roba di pescatori. Decine di vecchie barche giacciono sul fondo del canale principale, affondate da sole per la pioggia e per l’abbandono. Un’alta ringhiera circonda l’area dalla parte della terra (l’ex porto è ancora proprietà privata), ma via mare ci si può arrivare. Sopra uno dei moli c’è un riparo di legno, una stanza vuota con due finestrelle senza vetri. I tre amici ne hanno fatto il loro rifugio.

Marco si allunga a prendere una bottiglia di birra e guarda la ragazza abbracciata a Fernando: «Quando fa buio ci andiamo.»

Miriam, l’americana. È di Portland. Da un mese viaggia da sola per l’Italia. È scappata di casa perché sua madre è una troia e perciò hanno litigato: lei le ha tirato un sasso in faccia. Parla poco l’italiano, ma si fa capire.

Dice che ha diciotto anni.

 

«Piove, cazzo!»

Il dottor Martini chiuse dietro di sé la portiera della macchina di Luciano, che lo aspettava fumando nella macchina ferma davanti alla Gora, e gli strinse la mano intorno al braccio: «Ciao Luciano.» Non si sentivano da quindici anni e non si vedevano da venti. Luciano era ingrassato e invecchiato; aveva capelli grigi e la pelle del viso gonfia e cadente, da alcolista. Ricambiò il saluto. Mancava solo il terzo, ma i pensieri dei due presenti erano tutti per lui. «Bisognava fare subito, capìo? Adesso che è fuori può fare una telefonata anonima e con due parole portar qui la polizia e ficcarci nella merda. E poi adesso c’è la bassa marea», disse Luciano e fece un tiro: «Magari non c’è rimasto più un cazzo, Marco. Magari la laguna si è mangiata tutto.»

«Luciano, mi son portato dietro la bambina. La stavo accompagnando a casa dal corso di danza quando mi hai chiamato. Non potevo far altro.» Luciano guardò nel retrovisore la bella macchina del dottor Martini, che proseguì: «Le ho detto di aspettarmi lì. L’ho chiusa dentro. Facciamo presto no?»

«E quindi ti sei sposato?»

«Sì – che dici? Facciamo presto, no?»

Luciano spense la sigaretta: «Magari non c’è rimasto più un cazzo.»

 

«Bastardo, stronzo! Basta adesso! Basta!», urla impazzito Marco.

Tra i pezzi della bottiglia sparsi sul materasso, Fernando pende ancora sulla ragazza.

Entra Luciano di corsa nel rifugio e bestemmia: «Che cazzo avete fatto?».

I compagni non rispondono.

I capelli della ragazza coperti di sangue, nel reticolo di luce della finestra, incorniciano un viso di bambina.

 

Il dottor Martini stese un sacco nero sul molo come una camicia stirata, mentre Luciano coi piedi nel fango armeggiava con la pala intorno al relitto del sandolino. Venezia, lontano, dietro la pioggia, irradiava un albume livido nel cielo della laguna.

«Comincia a tirare.»

La barca, sepolta dalla sabbia, cominciò finalmente a muoversi. Emerse per prima la prua, irriconoscibile.

«Dai, Marco, tira!»

I due vecchi compagni, ansimanti e sporchi di fango, tirarono finalmente la barca sul molo. Era ancora intera. «Bene, adesso dobbiamo aprire la sentina – Luciano indicò il fondo della barca –, tieni la pala!»

Il dottor Martini ficcò la pala sotto le assi e queste si alzarono mollemente, scoprendo il letto di sabbia della sentina e il suo segreto ben conservato. Il dottor Martini fu invaso di nuovo dal bisogno di vomitare. Luciano soffiò nel sacco per aprirlo. L’amico lo avrebbe riempito con la pala.

«Eravamo ubriachi, Luciano.»

L’altro non rispose.

«Eravamo bambini anche noi.»

 

L’orlo del sandolino, riempito di sabbia, scende oltre il pelo dell’acqua che subito lo inghiotte, mentre Luciano fa sparire il motore lanciandolo nella laguna. Fernando e Marco si guardano: «Che c’è? Che c’è, stronzo? Te la sei fatta anche tu la bambina, e se l’è fatta anche lui che adesso fa quello che non c’entra niente: cosa credi che potevamo fare? Domani tutti amici? Frocio del cazzo!»

La rissa è furiosa. Luciano sopraggiunge urlando bestemmie inutilmente; Fernando, colpito da un pugno di Marco, arretra e raccoglie da terra una sbarra di ferro.

A questo punto, inatteso, entra il guardiano (di qui in avanti i verbali riportano i fatti in modo piuttosto fedele) e Fernando corre a ucciderlo a colpi di sbarra. Arriva il secondo vigilante e immobilizza il ragazzo, disarmandolo.

Sarà facile, per gli avvocati del figlio di un medico, mettere in luce la responsabilità completa di Fernando per la morte dell’uomo: omicidio volontario. A Marco e a Luciano è imputata solo violazione di proprietà privata.

 

Due colpi di pistola e Luciano si accascia.

Altri colpi e il racconto del verbale del processo, come un déjà-vu, cala sul presente del dottor Martini, che vomita sangue per terra.

«Guarda chi si vede! Me l’aspettavo, devo dire. Stavolta però sono io a farla pulita, non tu, coglione!»

L’ombra fruga in tasca al dottore morente e gli sventola in faccia la chiave della macchina.

«Senza testimoni.»

Elena.

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Commenti: 3
  • #1

    Il Mala (giovedì, 12 giugno 2014 00:40)

    Storia bene sviluppata un ottimo concentrato di immagini.

  • #2

    Ciccius (sabato, 14 giugno 2014 18:02)

    Finalmente riesco a leggere qualcosa! Ric, non c'è nulla da dire, hai un gusto dell'orrido piacevolmente velato da una narrativa al ritmo noir. Mi garba proprio!

  • #3

    annalisa (mercoledì, 25 giugno 2014 01:12)

    Soggetto molto interessante e soprattutto molto articolato, il migliore da questo punto di vista. Annotazioni: a un certo punto la narrazione si perde e il lettore non riesce più a capire bene se si parli del passato o del presente; questo è forse dovuto a dei sottintesi che, nell'intenzione del narratore, dovrebbero conferire una certa atmosfera ma in realtà fanno un po' di confuzione. Poi, il torpiloquio ci stava, ma a volte era un po' eccessivo e mettere delle parolacce tipiche della laguna avrebbe aiutato a contestualizzare meglio il racconto da questo punto di vista