Fulvo e Abele

Stefano Parisi

C'era una volta un lupo.

Era un lupo piuttosto normale: era di colore rossiccio scuro, né più alto né più basso dei suoi compagni di branco e ululava tutte le notti, tranne quando c'era la luna nuova o faceva cattivo tempo; si chiamava Fulvo.

Un anno ci fu un inverno particolarmente rigido e in pieno dicembre i lupi si accorsero che ormai nella foresta non era rimasto niente da mangiare. Preoccupati, una notte decisero di dividersi e scendere a valle per cercare qualcosa da mettere sotto i denti.

Fulvo scelse un sentiero stretto che correva lungo uno dei versanti della montagna fino ai campi che circondavano un piccolo paese. Saltò diversi torrenti e fiumiciattoli congelati e dato che era ancora notte fonda, si fermò per sgranocchiare un ghiacciolo da una cascatella di ghiaccio, tanto per riempirsi un po' lo stomaco brontolante.

Giunto a valle, si trovò davanti a numerosi campi: qui d'estate i contadini piantavano patate, grano e cipolle e Fulvo poteva ancora sentire l'odore delle verdure impregnato nella terra e nella brezza che soffiava sulle campagne addormentate.

L'attenzione del lupo fu improvvisamente attratta da un altro odore: pecore! A Fulvo venne subito l'acquolina in bocca pensando a un bel cosciotto tenero e decise di cercare immediatamente il gregge: annusò a destra, a sinistra e per terra e come un segugio seguì la traccia.

Poco dopo sentì persino il belare di un agnello e con due salti raggiunse il posto dove era la bestiola: un cosino minuscolo di lana bianca, imbacuccato sotto un groviglio di sterpaglie lungo i bordi un po' scoscesi di un basso fosso asciutto. Stava belando tra sé e sé e per un momento Fulvo pensò agli strani umani che a volte salivano sulla montagna per abbattere un albero o due e portarseli via, fischiando o cantando cose incomprensibili.  Gli umani sono strane creature.

Fulvo aprì le fauci e saltò addosso all'agnello, il quale veloce come un lampo balzò in piedi e si spostò urlando di spavento. Fulvo cascò dove la piccola pecora era stata un minuto prima, scivolò sulla terra ghiacciata e finì a gambe all'aria.

Cercando di darsi un contegno, si tirò in piedi e cercò la pecorella per mangiarsela, ma l'agnello tremante gli gridò «Aspetta, aspetta, non mangiarmi! Non mangiarmi!»

Fulvo lo guardò stupito per un momento e a sua volta gridò «Oh mio Dio, un agnello parlante!», solo per poi rendersi conto di cosa aveva detto e gridare di nuovo «Oh mio Dio, ma parlo anche io!»

Infatti allora gli animali non parlavano e tra di loro si capivano solo a versi e gesti, quindi si può immaginare perché Fulvo fosse d'improvviso così stupito.

«Non mangiarmi!» ripeté spaventato l'agnello, che non sapeva bene che pesci pigliare e voleva prendere un po' di tempo.

«Se non ti mangio morirò di fame!» gli rispose ringhiando Fulvo, facendo finta che tutta quella faccenda del parlare fosse la più perfetta normalità. Ma la testa gli girava, lo stomaco brontolava e lo stupore lo aveva stordito, cosicché il lupo si sentì improvvisamente stanchissimo e decise che era il momento di dormire un po'.

Si svegliò con un delizioso profumo di salsicce nel naso e quando aprì gli occhi si trovò di nuovo nel fosso assieme all'agnello, solo che stavolta tra di loro c'erano una collana di dodici salsicce e un prosciutto con l'osso. Fulvo non capiva e guardò l'agnello inclinando la testa, come fanno i cani quando vedono il loro padrone fare qualcosa di strano.

«Sei svenuto per la fame, si sentiva il tuo stomaco fare rumore fino all'ovile. Ho pensato che se avessi mangiato qualcosa, poi non avresti avuto voglia di mangiare me...» gli spiegò l'agnello, parlando lentamente, come si fa con i bambini.

A metà frase, Fulvo si era già mangiato metà delle salsicce e masticando la settima chiese: «Perché?»

L'agnello, che si chiamava Abele, fece spallucce. «Non potevo mica lasciarti qui a morire di fame e di freddo...»

Fulvo non sapeva cosa dire, quindi ringraziò semplicemente l'agnello e gli disse che non avrebbe dimenticato quello che aveva fatto. Poi si avvolse le salsicce rimanenti attorno al collo, prese in bocca il prosciutto e si avviò di nuovo sulle montagne. Arrivato a metà strada, mentre il cielo già si stava schiarendo, si fermò per cercare nella valle retrostante la fattoria dove aveva incontrato l'agnello.

«Che esperienza strana.» pensò Fulvo semplicemente, ammirando campi che avrebbe rivisto solo molto tempo dopo.

 

***

 

Passarono molti anni. Il branco di lupi attraversò momenti sereni e gravi difficoltà, ma sopravvisse a lungo. Fulvo ormai era un vecchio lupo, col pelo bianco e grigio, e stanco del chiasso e della confusione del branco era andato a vivere da solo in una tana piuttosto distante.

Scese un altro inverno e Fulvo si stupì di vedere che, nonostante la sua età, la prima neve lo riempiva ancora di gioia e di meraviglia. Una notte, aveva appena finito di ululare alla luna quando sentì dei rumori provenire da un punto profondo del bosco. Incuriosito (nessun animale si avventurava mai così vicino alle tane del branco) si addentrò fra i cespugli coperti di neve senza fare il minimo suono. Dopo qualche centinaio di passi si rese conto che stava ascoltando il profondo ringhio di un orso e un verso strano che poteva essere un belato minaccioso.

Sbucando col muso fuori da un ginepro, vide la cosa più strana della sua vita: un enorme montone si era rifugiato in cima a una grossa pietra scoscesa e teneva a bada a calci un orso bruno che cercava di arrampicarsi sulla roccia coperta di ghiaccio.

Credendo di aver trovato una facile preda, Fulvo uscì dal cespuglio ringhiando e minacciando l'orso il quale, vistosi scoperto nel territorio dei lupi, sbuffò un paio di volte, rivolse un'occhiataccia al montone e si dileguò rapidamente nella boscaglia.

I due animali rimasti si fissarono a lungo, entrambi incerti su cosa fare. Fulvo non poteva salire sulla roccia, ma il montone non poteva scendere.

Poi il vento cominciò a soffiare e portò ben chiaro alle narici di Fulvo l'odore del montone. Quasi gli venne da ridere.

«Mi hai portato altre salsicce?» gli chiese.

Gli occhi di Abele si spalancarono per la sorpresa. Dopo tutti questi anni...

«Scendi, prometto che non ti mangio - disse Fulvo, e si leccò il naso tre volte di fila, cosa che nel linguaggio dei lupi vuol dire 'Giurin giurello' - però spiegami cosa ci fai qui, sei diventato matto?»

«Il contadino voleva usarmi per fare dei salami - rispose Abele, scendendo dal sasso - allora sono scappato. Con tutto quello che c'è al mondo, non capisco perché tutti vogliano sfamarsi usando me...»

«È perché sei saporito al punto giusto. Adesso però seguimi.»

Fulvo accompagnò Abele alla sua tana e gli mostrò l'entrata.

«Per stanotte puoi rimanere qui, se vuoi. Però non posso tenerti qui più a lungo, il mio branco è vicino e presto sentiranno il tuo odore.»

«Grazie, Fulvo.»

«Te l'avevo detto, o no? Non avrei dimenticato.»

 

Rimasero sdraiati sulla soglia della tana tutta la notte, guardando le stelle girare lentamente e la luna tramontare.

«Se tanti anni fa non avessimo cominciato a parlare, ora saremmo morti tutti e due.» disse d'improvviso Fulvo, mentre la notte da nera diventava grigia.

«Tu lo sai perché è successo?» gli chiese Abele, rendendosi conto solo ora della verità nelle parole dell'altro.

«Forse proprio perché potessimo essere vivi oggi.» rispose Fulvo.

«Cosa vuoi dire?»

«Io sono un vecchio lupo, ormai il capo del branco è qualcun altro. Non vivo nemmeno più con loro. Tu sei un vecchio caprone...»

«Grazie del complimento.»

«Di niente! Comunque dicevo, sono vecchio e anche tu. Però c'è ancora una cosa che vorrei fare e preferirei farla in compagnia.»

«Che cosa?» chiese Abele, perplesso.

«Voglio andare in un posto. Lontano. Lontanissimo. E ho deciso, parto stanotte. Anzi, parto subito.» rispose Fulvo alzandosi e cominciando ad incamminarsi lontano dalla sua tana.

«Un posto? Aspetta, aspetta! Dove?»

«Là - disse Fulvo, indicando con un movimento delle orecchie un punto all'orizzonte - voglio andare a vedere cos'è quella cosa.»

Abele alzò lo sguardo per guardare cosa mai avesse agitato tanto il lupo e rimase alcuni secondi a fissare il cielo, stupito di non essersene accorto a sua volta.

Fulvo fece qualche altro passo, poi si fermò e si voltò verso il montone ancora sdraiato all'entrata della tana.

«Vieni?» gli chiese.

Senza dire una parola, Abele si alzò, annuì deciso e trotterellò fino a raggiungere Fulvo.

 

Così, il lupo e la pecora si incamminarono fianco a fianco per andare a vedere cosa fosse mai la bizzarra stella con la coda che brillava, bassa bassa, nel cielo meridionale.

Scrivi commento

Commenti: 0