Io sono classe media

Ruben Omar Mantella

Voglio fare qualcosa di diverso. Di me, della mia vita. Ma il ‘diverso’ ha perso significato, non so più come chiamarlo. Ci sono negozi apposta per i ‘diversi’. Vestiti ‘diversi’ e computer ‘diversi’. Ci sono negozi per gli anarchici, per i ‘Dark’. Negozi per fascisti, ecologisti, intellettuali. C’è il ‘merchandise’ per i letterati, per i giornalisti, per i ragazzi con i rasta e per i comunisti sfegatati. C’è una marca di moda che vende milioni di capi e che si chiama Disuguale, e tutti vanno vestiti ‘Dis-uguali’.

Questo è il futuro. Non ci sono risultati bizzarri, nel futuro. Gli scienziati ci dicono che l’universo tende all’equilibro, all’energia stabile: la morte entropica. Il nostro equilibrio l’abbiamo trovato nell’anno 2100, avvolti in uno stupore che lascia ai libri di storia il tentativo di spiegare come abbiamo fatto, per ventisette secoli (!!!), a non renderci conto della semplicità e della bellezza della formula perfetta della felicità umana.

Nell’anno 2100 i presidenti degli Stati Occidentali Uniti hanno ufficialmente dichiarato l’avvento della nuova era: la lotta di classe è finita, la Storia è finita; la Classe Media è finalmente, per il novanta percento del pianeta, l’unica classe esistente. 

Non voglio dilungarmi sui dettagli, come ci si sia riusciti va lasciato agli specialisti. Da notare che non ci fu bisogno di alcun regime dittatoriale, né Grande Fratello, né cospirazione massonica. Era semplicemente ovvio.

La Classe Media era, ci rendemmo conto, l’obiettivo e il destino della vita senziente sulla terra; il motore, il soggetto e l’oggetto di ogni politica, la soluzione all’enigma di Utopia. Era tutto così chiaro, così lapalissiano, che non ci fu bisogno di convincere nessuno. Ci volle tempo, questo sì, un controllo delle nascite esteso, un breve periodo di Consumo Minimo Obbligatorio, una riforma strutturale dell’intero sistema economico, ma alla fine ce l’avevamo fatta. Quattro miliardi di persone, otto ore di lavoro a testa, cinque giorni la settimana, due liberi, mille e quattrocento West al mese (a testa!), quattordici mensilità; Natale, Pasqua, Carnevale, Festa dell’Unificazione, Ferragosto e Capodanno liberi per tutti; più venticinque giorni di ferie all’anno. Chi poteva dire di no? In fondo significava la bella vita. Con mille e quattrocento West uno si poteva fare le ferie, risparmiare qualcosina, permettersi i piaceri della vita (viaggi, videogiochi, vestiti, tablet, mobili, cosmetici), godere della stabilità, della famiglia, delle feste popolari e della televisione, anche satellitare, completamente gratuita. Il punto era che lo facessero tutti, che il ritmo fosse comune, perfetto, scandito, matematicamente pulito.

Eppure ricordo un’epoca diversa. Cosa ci fosse di così diverso mi riesce difficile da descrivere; mi mancano le parole. Ma l’ordine del mondo, degli alberi, delle persone, lo spazio e il tempo stessi, erano diversi. Io ero diverso. Non ero felice come lo sono ora, s’intende. E non ero disperato, intrappolato, come lo sono ora. 

Ho sempre odiato le festività. A Santa Lucia mi chiudevo in casa per evitare le mandrie di famigliole coi bambini che brucano tra i mercatini luccicanti. 

Ora è diverso. Mi sono trovato ad uscire di casa e a volermi unire a loro. Otto ore di lavoro al giorno, torni a casa per pulire, mangiare, fare acquisti online. E poi un giorno ci sono i mercatini, fa freddo, ma per strada si vendono le caldarroste e i vini caldi. Che bello. Voglio unirmi a loro, perché capisco il loro sollievo, uscire per strada ed unirsi a qualcosa di innocente e ordinato. 

L’innocenza e l’ordine e l’ottimismo, perché è questo che vogliamo per i nostri figli.

Ormai ho dimenticato come fosse, prima. Non ho più le parole, ma a volte sento la noia. Non sono soddisfatto. Sentirmi così felice mi fa sentire fuori luogo. 

Cosa fa un uomo che ha un buon lavoro, una bella casa, amicizie multietniche? 

Due giorni liberi.

Cosa fa un uomo che ha otto ore libere tra pomeriggio e sera?  

Che può comprare vino, marijuana, un letto comodo. 

Che può comprare sigarette, pasta fresca, croissant dal fornaio, lamette nuove e dopobarba profumato? 

Che può chiamare gli amici per bere una birra, per giocare a giochi da tavolo, per guardare la partita, per vedere un film sul divano. Che può innamorarsi di una donna o di un uomo, godere di entrambi, o cercare ogni giorno, mentre cucina, muovendo un dito sul telefono, un’infinità di volti che si sommano con il ritmo della procreazione sulle apposite pagine d’accoppiamenti. Due persone si sono aggiunte nella tua città! Tre persone! Cinque persone! Silvia, 29, ti piace? Giada, 31, ti piace? Mandale un messaggino!

Cosa fa un uomo felice, con lo stomaco appagato, con una PlayStation nuova.

Con denaro per le vacanze, con gusto nel vestire, in una città di concerti, ristoranti gourmet, gallerie alternative, musei, teatri. 

In una città con taxi e monumenti e turisti.

Cosa fa un uomo giovane, bianco, con i capelli profumati?

Cosa fa un uomo felice, quando non sa che fare?

Dovrei fare qualcosa, dice Pamela, contro la noia. 

Fai qualcosa, o chiede Facciamo qualcosa?. 

E facciamola sta cosa.

Cosa facciamo? 

Puoi andare al cinema.

No.

Teatro, un concerto?

Non ne ho voglia

Andiamo a casa mia?

Abbiamo scopato stamattina Pamela. Ancora?

Chiama il tuo amico... Francesco?

Voglio stare solo.

E’ pieno di cose da fare! È una città questa!

Già, e non mi viene in mente nulla.

Puoi intrattenerti.

Intrattenermi?

Vai sulla pagina degli intrattenimenti.

Già fatto. Cinema, pizzerie, concerti, viaggi.

Hai guardato la pagina dell’ozio e del tempo libero?

Fai-da-te. Bricolage. Pittura, scultura. Corsi di cucina, di uncinetto, balli caraibici. Strumenti musicali australiani. Non mi va.

Abbiamo detto solo alcune opzioni. Ce ne sono infinite!

Vero? Così sembrerebbe.

E’ una città questa!

Sembra difficile, fare qualcosa.

Potremmo fare un figlio. Ormai è ora.

Non lo so.

Uff, allora non so proprio che dirti!

Le abbiamo numerate, le possibilità della mia vita. Ho denaro da spendere, ho due giorni liberi, sono giovane, sono forte, sono bianco, ho amici, ho una donna. Così poche possibilità. Così poche combinazioni. 

È la vita, dice Pamela.

Davvero? È la vita stessa così? La vita ha i cinema e i teatri. Le combinazioni infinite dell’universo, e poi i cinema e i teatri. Ristoranti e scappatelle in montagna. Videogiochi, cibo cinese, partite di  calcio, di tennis,  laser tag con gli amici.  

Ci stai pensando troppo, dice Pamela.

E tutto questo è “fare qualcosa”... bisogna fare qualcosa. Voglio fare qualcosa. Facciamo qualcosa questo fine settimana? Andiamo in montagna, poi mangiamo, poi ci divertiamo sotto il sole, poi torniamo a casa, una birra, forse un caffè, poi a casa. E si è fatto qualcosa. 

È colpa tua, dice Pamela.

Tutto questo scegliere...

È colpa tua, ripete Pamela. 

La triste contabilità del mio tempo inutile.

È perché credi ancora che ci sia un modo di non sprecare la vita, dice Pamela.

Devo andare via, partire. Tutta questa felicità mi sta uccidendo. Devo  sentire di avere possibilità, sfaccettature. Di poter essere qualcuno di diverso. 

Ma dove andare? Il mondo è tutto uguale, ormai, e andare in Iraq o in Afganistan peggiorerebbe solo le cose. Penso che lascerò tutto, prendo solo il denaro, e comincerò a camminare. Voglio fare il barbone o forse il viandante. Voglio fuggire dal ritmo, dal tempo scandito del benessere. Mantenermi in movimento. 

Gli scienziati sono concordi sul destino finale del cosmo: il calore, l’energia, tende a disperdersi, l’ordine desidera il caos, il ballo delle galassie l’immobilità del ghiaccio; le stelle smetteranno di girare. 

A livello cosmico, l’equilibrio è la morte per freddo.

Devo muovermi, dentro e fuori, per sfuggire alla banalità, ai buoni sentimenti, alla felicità in lattina, all’ipotermia dell’universo. 

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