Diario di viaggio.
Convincere l’editore è stato più facile del previsto. Mentre prendo appunti per l'articolo, nella sala fumatori del Charles DeGaulle, non posso non pensare che sapesse meglio di me a cosa vado incontro, che conoscesse il reale motivo della mia idea geniale: la giovane e brillante neo-giornalista del National Geographic che racconta il suo viaggio epico verso l’isola abitata più sperduta del pianeta. Epico un cazzo, cari lettori.
«Non ti immaginavo così.»
«Così come?»
«Non lo so. Ubriaco?»
«Non sono ubriaco.»
«Non sei ubriaco.»
«Infatti.»
«Ahà.»
«Giuro.»
«Già.»
«Sono in botta. La botta è diversa.»
Conto gli aerei, gli scali, i trasbordi, il sottile laccio burocratico che mi unisce alla mia sola e unica valigia: Parigi Nuova Delhi. Nuova Delhi Hong Kong. Hong Kong Sidney. Anche in Australia: tedeschi con infradito e calzini. Sidney Auckland.
«Quindi tu sei mio padre.»
«Piacere di conoscerti.»
«Sapessi le scuse che mi sono dovuta inventare per farmi pagare il viaggio, per fortuna sei capitato su di un isola unica. Dobbiamo parlare.»
La Nuova Zelanda è il confine di qualcosa di importante. Mentre decolliamo sento che andare più a ovest significa violare un limite, oltrepassare una distanza dal mondo umano per la quale non sono fisicamente preparata, correre un pericolo. Il cellulare ha smesso di prendere qualche migliaio di chilometri fa.
«Immagino che tu sia venuta per...»
«Per conoscere la tua storia. Madre non mi ha raccontato nulla di te, di voi, prima di morire. Non che dopo l’abbia fatto.»
«Hai il suo senso dell’umorismo.»
«Ci sono cose che ho bisogno di sapere, prima di compiere i quaranta.»
«La cara vecchia Dolores.»
«Sai che faceva parte del Comitato Europeo di Bioetica? Battaglie per i diritti umani, trattati internazionali, la dignità dell’uomo.»
«Su Internet dicevano che era un'imprenditrice.»
«Anche. Quando ero piccola ha fatto i soldi vendendo assicurazioni sulla vita, ma poi si è stufata. Diceva che voleva fare qualcosa di serio. Un genio. Inarrestabile, piena di morale, di senso della giustizia.»
«Le volevi molto bene.»
«La veneravo.»
«Eh madonna! Guarda che io, con tua madre, ci ho fatto i trii.»
Il bimotore sfiora l’acqua mentre scivola su di un piccolo atollo, popolazione: una pista d’atterraggio. In venti saliamo sul traghetto fino all’isola di Mangareva, un minuscolo paradiso di acque azzurro cielo e rigogliosissime palme. Abbandono i quattro turisti bruciacchiati come una prescelta diretta a luoghi più segreti, e Io e dieci uomini prendiamo il largo sulla Claymore II, con me a prua che mi riempio gli occhi del blu che mi circonda in ogni direzione all’infinito.
«I cosa scusa?»
«I trii. Uno nel sessantanove, a Londra»
«No.»
«Io, lei e un ghanese dalla pelle scurissima che parlava solo francese e che per qualche ragione si chiamava Fernando. Giuro.»
«No, no.»
«Una gran serata che purtroppo ricordo a sprazzi diagonali, memorie corrette LSD. A volte dubito sia successo. Tua madre era bellissima.»
In meno di un’ora le Isole Gambier spariscono alla vista e mi ritrovo in mezzo al nulla. La luce omogenea, il mondo diviso in mare e cielo, cielo e mare, distingui l’uno e l’altro cercando una nuvola o i tuoi propri piedi, e mi dà un senso di nausea che combatto strappandomi le pellicine delle unghie.
«Dolores non avrebbe mai fatto certe cose. Lei lavorava, rammendava di notte, ballava i fine settimana, organizzava cene con gli amici.»
«Tu cosa fai?»
«Io scrivo per una rivista di viaggi. Dormo sul divano perché il mio psicanalista dice che è il mio modo di ribellarmi all’idea di sonno, di spegnimento della coscienza. Il letto come simbolo della bara. La verità, credo, è che lo schienale del divano mi fa sentire abbracciata. Ho trentacinque anni e un motorino che pago a rate. Una vita così.»
«A Londra mi arrestarono per aver manifestato contro il Vietnam. Avevo vent’anni.»
Mi dicono che una macchia scura, laggiù da qualche parte, è Adamstown. L’avvicinamento all’isola (i fondali bassi sono pieni di rocce nere affilate come rasoi) è un balletto nautico di timore reverenziale, come l’atterraggio su di un pianeta permaloso.
«Poi con tua madre ed un gruppo di amici, a Berlino. Non chiedermi l’anno perché francamente non sapevamo quel genere di cose. Comprammo un vecchio autobus, lo chiamammo ‘Tortuga’ e ci facemmo un viaggio infinito, parlo di mesi, fino al confine nord dell’India. Ci drogavamo con metodo, facevamo l’elemosina per pagare la benzina e un pezzo di pane, una misera foglia d’insalata, biscotti, frutta. Vendevamo collanine della pace e pasticche. In India ci abbiamo vissuto sei anni.»
Finalmente, Adamstown: un’unica grossa roccia, coperta di verde brillante, misteriosa, senza spiagge, solo alte scogliere, quattro chilometri quadrati, cinquantasei abitanti, il luogo perfetto per nascondere il tesoro di un re azteco o dove un genio del male costruirebbe la base segreta nella quale rinchiudersi ad ascoltare Beethoven indisturbato.
«Da questo viaggio volevo conferme, chiudere un cerchio. Non volevo sorprendermi. Mi rassicurava immaginarti un tipo normale, noioso quasi.
«Tua madre diceva che io ero un gran figo.»
«Un babbo normale. Barba, pancetta, strizzatine delle guance.»
«Non mi credi?»
«E invece dovevi essere un personaggio.»
«Non mi crede.»
«Abbronzato, sorridente, a petto nudo, pieno di avventure.»
«No no, fai pure, fai la spiritosa.»
«Un uomo tranquillo, fatto per consolare e confermare. E invece.»
«È un complimento?»
«Non lo so. Continua.»
«Sei anni senza sapere i nostri nomi, senza vivere il tempo, seminudi, a piedi scalzi sulla sabbia di un’isoletta nell’Oceano Indiano. Trombando, mangiando, cantando. Ballando nudi con sconosciuti che tutt’oggi mi mandano foto digitali dei loro figli e io vecchie polaroid di noi abbracciati, sull’Isola, giovani donne e giovani uomini dai capelli lunghi e lo sguardo felice.»
«E invece...»
«Ci cacciarono dal paese, alla fine: mi accusarono di rivendere artefatti archeologici, che poi era vero. Ma chi ce l’aveva un passaporto, uno straccio di ‘carta d’identità’? Mangiavamo pesci e papaya. Lei dovette sposare un nostro amico americano per avere i documenti e io feci lo stesso con una ragazza tedesca. Tu sei stata concepita su quell’isola fuori dal tempo, sotto l’effetto di droghe che, col sole e l’umidità, rendevano gli uomini pacifici sognatori in balia di divinità-elefante che apparivano in pieno giorno, agghindati di perle e smeraldi, che parlavano con voce di tigre.»
Conosco questo signore dall’età indecifrabile. Mi mostra la foresta e s’arrampica sulle rocce taglienti a piedi nudi, invitandomi a seguirlo, e i miei scarponi con la suola rinforzata ne vengono fuori come da un incontro con una trituratrice. Si fa chiamare Aloha.
«Cos’hai?»
«Niente.»
«Ormai sei qui. La Claymore non ripasserà per un mese almeno. Non ci sono strade per le quali incrociarci e far finta di non essersi visti.»
«Sono venuta per scoprire una parte di me nascosta tra gli effetti metaforici del ritrovare la figura paterna.»
«Sembra il coso di un film.»
«Il copione.»
«Quello.»
«Al funerale di mia madre c’erano preti e assessori. Vari gruppi di volontariato. Non mi ha mai raccontato di te perché le sembrava stupido parlare del passato, era una donna solare e pratica.»
«E allora?»
«Venivo a conoscere te. Non lei. Lei la conoscevo bene.»
«Conoscevi una donna di sessant’anni. Il distillato di una vita caotica e brillante.»
«Verso la fine aveva un braccio paralizzato.»
«Mi spiace.»
«Sai cosa diceva?»
«Cosa?»
«Diceva: ‘con questo braccio non ci posso fare niente. Ma ci ballo comunque salsa portoricana’.»
In un lato dell’isola vive una tartaruga delle Galapagos conosciuta dai locali come Mrs Turpin.
«Un mese eh?»
«Già.»
«Racconta, vecchio bastardo.»
«Prima di tutto andiamo a procurarti un pario di pantaloncini comodi, stasera dormiamo a Garnet’s Ridge, non ci serve neanche la tenda, né il divano, per dormire. Da lassù puoi vedere i due lati dell’Oceano.»
Mentre stringo tra le mani la dura corda del tendone dove stiamo per celebrare il solstizio d’estate, cerco di non sentirmi così bene, di non ridere alle battute di quest'uomo dall'odore familiare, di trovare un motivo per il quale dovrei rimontare sulla Claymore e lasciare una festa piena di manghi appena raccolti, musica, alcol polinesiano. Torte di frutta esotica.
«Sarà bellissimo. Oscurità totale, un fuocherello, il respiro delle acque. Il ricordo di tua madre dentro di noi, e il cielo più stellato che tu abbia mai visto sopra di noi.»
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Il Mala (mercoledì, 11 giugno 2014 21:57)
Bellissimo racconto, lo definirei un quadro.
Mi piace l'immagine presente mischiata al flashback che si incontrano sul finale.
Bravo Ru sei (parere personalissimo) migliorato dai primi due.
fucinanarrante (venerdì, 13 giugno 2014 22:05)
Sono molto contento ti sia piaciuto! Vorrei poter condividere il tuo entusiasmo, ma, come mi dice un collega, evidentemente sono un cattivo giudice delle mie proprie creazioni. Leggi e condividi, e speriamo ti piaccia anche il prossimo!
LeonardoSalviati (mercoledì, 25 giugno 2014 22:22)
Sono molto contento ti sia piaciuto! [Questo non è italiano]. Vorrei poter condividere il tuo entusiasmo [la virgola non serve] ma, come mi dice un collega, evidentemente sono un cattivo giudice delle mie [non serve aggiungere 'proprie'] creazioni. Leggi e condividi, [qui ci andrebbero i due punti o il punto e virgola: la virgola non basta] e speriamo ti piaccia anche il prossimo!
fucinanarrante (giovedì, 26 giugno 2014 00:33)
Meno male che ci sono sempre dei simpaticoni che non hanno nulla di meglio da fare che criticare la grammatica. Di un commento. Ad un racconto. I punti qui servono per mimare il ritmo del mio tono sarcastico.
ps: e la critica la fanno pure male! quante braccia rubate alla terra!