La dannata cravatta non voleva saperne di annodarsi bene. Un lembo troppo lungo e uno corto, nodo troppo grosso, nodo troppo piccolo, nodo senza forma, nodo ingarbugliato...
‘Non ci si può più fidare nemmeno delle cravatte ormai’ pensava Martillo, disfacendo il doppio Windsor per la quinta volta. Lo specchio gli rimandava un’immagine di sé a cui era fin troppo abituato, stretto in un abito eccessivamente costoso e in una camicia immacolata, soffocanti e uguali a quelli di centinaia di altri Rappresentanti del Popolo, avvocati ed affaristi sparsi per la nazione e nel resto del mondo.
Finalmente riuscì a sottomettere il nastro di seta e sistemò il colletto della giacca nera. Lo specchio gli confermò che ora era pronto a occupare il suo seggio nell’Aula di Legislazione, l’alto scranno del Presidente dell’Assemblea in cui era stato messo due legislature prima e di cui non era ancora riuscito a liberarsi. Onorevole Presidente Enzo Martillo.
‘Avrei dovuto andare dal barbiere ieri mattina’ rifletté en passant notando diversi ciuffi ribelli, ma ormai era troppo tardi per fare qualcosa e allontanò il pensiero con una scrollata di spalle.
Prese la ventiquattr’ore dalla scrivania e si avviò con andatura ondeggiante lungo i corridoi pannellati di legno scuro, il gelido pavimento di marmo screziato coperto da soffici tappeti. Diede solo un’occhiata annoiata ai documenti che Anita, la decrepita segretaria con lo sguardo da vecchia volpe, gli aveva messo in mano all’uscita dal suo studio.
Disegno di legge 34/16 D.C.M. del 11.11.11, “De universale suffragio”.
Nelle intenzioni, una legge per estendere il diritto di voto alle caste e strati meno abbienti della popolazione.
Nella pratica, l’analogo politico di una guerra di trincea, che si prolungava da oltre dieci anni.
Martillo sentì salire le palpitazioni. Oggi l’ultima votazione, che avrebbe posto fine alla battaglia: da un lato, un esercito di Rappresentanti del Popolo, eletti da coloro che di esprimere preferenze avevano già diritto, forti dell’autorità e della legittimazione dello Stato. Dall’altro, un’orda di organizzazioni sindacali, dei lavoratori, sociali e di beneficienza, che in un modo o nell’altro erano riuscite, per potere economico, influenza spirituale o puro numero di iscritti, ad arrogarsi il diritto di presenziare alla plenaria del Parlamento, di sostenere la loro causa nell’ultimo tribunale e perfino, in alcuni casi, di votare a loro volta.
All’esterno, uno stormo di avvoltoi armati di microfono, pronti a trasmettere ogni dettaglio al resto del mondo, in trepida attesa.
«Pur nel rispetto del principio dell’autodeterminazione dei popoli, su cui la nostra stessa Unione fu costruita – aveva dichiarato giorni prima un ministro degli esteri d’oltreoceano, un vero caprone secondo alcuni, l’agnello di Dio secondo altri – la nostra Costituzione ci impedisce di dare sostegno ideologico a correnti falsamente libertarie che in realtà mirano a sovvertire l’ordine costituito e distruggere la civiltà quale noi la conosciamo. L’effetto domino è in agguato.»
E il mondo, nel giro di quarantott’ore, si era diviso.
‘Vada come vada, sarà un mattatoio’ pensò Martillo, appoggiandosi all’alto schienale. Davanti ai suoi occhi, l’enorme semicerchio di sedili si estendeva verso l’alto e verso il basso per decine di metri, ulteriormente ampliato nella platea da file su file di sedie provvisorie. Le scrivanie delle dattilografe erano state addossate alle pareti e le telescriventi già iniziavano a riempire l’aria del loro sommesso ronzio, come uno sciame d’api pacificamente industrioso.
Alcuni dei Rappresentanti più appassionati erano già seduti ai loro posti: Mirella Aquilanti, Sottosegretario agli Affari Interni, nome irritante, muso da faina e sguardo inquieto, quattro file più in basso rispetto ad Martillo. Scorreva furiosamente gli atti delle precedenti assemblee in cerca di chissà cosa la sua mente predatrice le suggeriva. Silvano DeVerris, quasi in cima all’anfiteatro (da dove riusciva a vedere ogni cosa, si diceva), un vero lupo alfa al comando del suo branco di cani addestrati, primo ad arrivare ed ultimo ad andarsene, quasi certamente futuro Primo Ministro. Luigi Issodi, il grande progressista, sinistra estrema, un orso perennemente accigliato dalla voce roca che tuonava le sue denunce e le sue indignazioni ad ogni riunione dell’Assemblea. Ovviamente, il più grande alleato della composita folla di sindacalisti e operatori sociali che via via andava riempiendo l’Aula.
‘E dovremmo approvare una legge che metta d’accordo questa fauna?’ pensò amaramente Martillo, osservando gruppi di avvocatini nei loro grigi abiti da topo aggirarsi nei seggi cercando il loro posto. Grassi maiali untuosi ridere crassamente con altrettanto grassi trichechi, architettando chissà quale mossa geniale. Giovanni Dante Alzetti, il leone della politica, impegnato in una fitta conversazione con uno dei suoi scagnozzi, le cui risa sporadiche e spezzate non lasciavano presagire nulla di buono.
Quando finalmente tutti furono seduti, Martillo poté richiamare l’attenzione e calò un incerto silenzio. In breve, l’Aula di Legislazione risuonò delle accorate arringhe delle parti, dei Rappresentanti che presentavano emendamenti al disegno, di relazioni di commissioni e sottocommissioni, perizie e consulenze.
Il chiocciare sommesso e costante proveniente dai rappresentanti sociali si aggravò con la prima votazione, che vide troppe astensioni per essere valida. Dopo quattro ore di discussione, il compromesso su punti già ampiamente discussi nei mesi precedenti era ancora lontano. Martillo sospirò, già sapendo come sarebbe andata a finire.
La seconda votazione vide esplodere l’ira delle iene del Sindacato Nazionale degli Operatori non Qualificati, voce dei milioni di operai comuni che faticavano nelle fabbriche e morivano nelle miniere. Martillo fu costretto a sospendere l’Assemblea per mezz’ora per permettere agli spiriti di raffreddarsi.
‘Uno zoo. Con un piccolo di elefante, due giraffe e un rinoceronte potremmo far pagare il biglietto al pubblico per guardarci lavorare’ si disse Martillo, vergognandosi per gli elementi più vivaci. La seduta riprese anche troppo presto.
La terza votazione fu l’ultima, il cui risultato era da considerarsi definitivo. Nell’aula l’aria era satura dell’odore di corpi ammassati per ore, umida e senza ossigeno.
I monitor appesi alle spalle del palco della presidenza mostrarono il risultato. Cinquecentosei voti a favore del suffragio universale. Cinquecentosei contro. Nessuna astensione.
Martillo, incredulo, sentì il sangue gelarglisi nelle vene. La Costituzione non prevedeva nessun caso di pareggio assoluto, senza astensioni e senza assenze. Un caso troppo assurdo per essere preso in considerazione dai Padri Fondatori. Nessuno sapeva cosa fare.
Persa ogni dignità istituzionale, l’Assemblea esplose. I favorevoli volevano ripetere la votazione. I contrari, rimandarla. La situazione degenerò rapidamente e i gorilla della sicurezza dovettero intervenire per tentare di sedare un paio di risse, ma l’odore del sangue fece impazzire gli animi già sovreccitati. Inutili furono i richiami all’ordine.
Infine giunse il momento in cui la presidenza comprese che la situazione era irrimediabilmente compromessa: dai banchi già senza controllo della destra estrema, un gruppo di bertucce fece partire una salva di proiettili fetidi. Privo di alternative, Martillo fu costretto a far intervenire le forze dell’ordine, e la polizia e i militari sciolsero di forza l’Assemblea.
*****
Mentre un campanile in lontananza suonava le ventitré, Martillo guardava senza vederlo lo schermo piatto del televisore. La casa silenziosa e buia faceva eco al suo umore nero. La votazione era stata rimandata a data da destinarsi. Lo status quo era preservato e la comunità internazionale aveva all’unanimità applaudito la prudenza dimostrata dalla Repubblica su un tema tanto delicato. Le negoziazioni sarebbero proseguite per altri mesi.
Il dubbio e il senso di colpa lo tormentavano: avrebbe potuto gestire la situazione molto meglio. Avrebbe dovuto gestirla meglio. Martillo meditò di lasciare la carica il giorno seguente, ma avrebbe avuto troppo il sapore di una protesta. Meglio aspettare un paio di mesi, sì.
Il continuo nonsense che proveniva dallo schermo lo distrasse pian piano dalle sue fatiche. Il sensazionalismo dei notiziari della notte affogò le sue ansie e l’ingenua storia d’amore dell’ennesima commedia romantica soffocarono e uccisero i residui dei suoi sensi di colpa.
Non avrebbe potuto fare molto di più anche volendo, si disse masticando piano una banana con tutta la buccia. Non valeva certo la pena perderci il sonno e la salute.
In fondo, un orango da solo non poteva certo cambiare il mondo.
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zake (mercoledì, 15 ottobre 2014 18:35)
orwelliano ma pertinente con i nostri tempi. Mi piace.Continuate