La crisi esistenziale (con risvolti psico-motori) di Fredrik Lamacchia

Ruben Omar Mantella

Fino a qualche anno fa era il professor Fredrik Lamacchia ed insegnava Storia della Filosofia Universale nell’umida città di Rotterdam, in Olanda: alto e magro, pallido come un vampiro, cranio rasato quasi a zero, ispida e selvaggia barba nera, e quel suo starsene immobile, a gambe divaricate, a contemplare pensoso il giardinetto interno della facoltà, con i suoi quattro alberelli semi-assiderati, come se fosse al cospetto di malvagie entità cosmiche da sfidare eroicamente in stoica posizione verticale. Più che un professore dava l’idea di un qualche tipo di pericolosissimo militare buddista, o di un monaco in incognito con poteri (e forse problemi) di ordine mentale.

Dico qualche anno fa, perché, ahimè, il nostro amico professor Fredrik Lamacchia non insegna più, si è fatto crescere i capelli, e alcuni maligni dicono che faccia uso di vino, tabacco e donne in combinazioni che violano almeno un paio di severissime regole della logica formale.

Il suo primo libro, per capirci, scritto ad appena vent’anni e che lo catapultò nella vita accademica europea, cominciava così:

«La filosofia moderna ha inizio col dubbio, ma la filosofia eterna ha inizio col terrore». Ci sono i lettori assidui, diceva lui, e i Lettori Totali: dal suo primo, fulminante incontro con Hegel (a soli quindici anni) Lamacchia aveva deciso di non uscire di casa, aveva programmato con metodo un piano di lettura ventennale (i classici, un enciclopedia e i diari di un asceta russo del XVI secolo) e vi si era attenuto con militare fanatismo. Professore inflessibile, i suoi studenti avevano creato un’ormai veneranda pagina web per condividere consigli ed esperienze traumatiche; gruppi particolarmente cliccati erano ‘Lamacchia è veramente il demonio?’ e ‘Il miglior consiglio per l’esame di Metacritica della Metafisica Avanzata’ (riassunto nella risposta che lo stesso Lamacchia diede sotto pseudonimo: «Mettetevi davanti ai libri e cominciate a sanguinare!»).

Il giorno che segnò la crisi esistenziale di Lamacchia fu quello in cui viaggiò all’università di Barcellona per un ciclo di conferenze. Lamacchia prese il suo soggiorno mediterraneo come un gradito cambiamento: il fatto che le migliori università si trovassero così lontane a nord dell’equatore, gli sembrava un’ulteriore ingiustizia sofferta da menti già gravate dal peso della cultura universale. Ma il sole, in definitiva, e le palme e le belle ragazze e il mare così vicino e fragrante migliorarono il suo umore fino ad addolcire, seppur di poco, il suo sguardo da monaco-ninja.

Fino a quando non apparve Greta.

Di ragazze e ragazzi così, Lamacchia, come anche il più amateur degli intellettuali, ne aveva visti parecchi: anarchici, animalisti, vegani, con capelli-rasta e labbra-piercing: Greta non era nulla di tutto ciò, e per questo Lamacchia cedette al lascivo peccato di ascoltarla formulare la sua timida e distruttiva domanda, al termine della conferenza, quando riuscì ad avvicinarglisi con fare rispettoso.

«Professor Lamacchia.»

«Si?» rispose lui, toccandosi il capo rasato quasi a ricordarle che lui non era uno che avesse tempo per baggianate postmoderniste, femministe o anti-marxiste che fossero.

«La sua conferenza è stata meravigliosa professore.»

Lamacchia la fissava immobile. Greta era alta, castana, francese.

«Ho letto tutti i suoi libri e posso dire, ormai, di conoscere il suo pensiero.»

«Sistema.» La corresse lui.»

«Il suo sistema, certo. Grazie a lei abbiamo una formulazione teoricamente coerente di tutta la Realtà! Una visione nera, dicono alcuni, io dico sincera, schietta.»

Lamacchia pensava ad altro. A quella volta che uno studente italiano in erasmus, bocciato ad un suo esame, aveva inciso sulla cattedra di castagno: ‘prof. F. LaMinchia’.

«Ma... ecco, vede professore, nel suo sistema manca qualcosa.»

«Sentiamo.»

«Cosa ne pensa del ballo?»

«Mi scusi?»

«Del ballo. La danza. In senso ampio: uomini e donne che si ritrovano per seguire in modo discontinuo un ritmo ripetuto e variabile; muovere muscoli, le pance e le braccia. Sorridere. L’attività senza senso per eccellenza, eppure quella che più...»

«Io non ballo.» Rispose Lamacchia, e lasciò la stanza.

Ma il danno era fatto. Piantata nel suo cervello, quella domanda assurda non lo lasciò dormire. Divorò uno studio di Otto von Kraus sulla storia della danza (otto volumi), ma la domanda non trovava risposta.

Divenne schivo, ancora più incline a sostare in piedi negli angoli bui delle stanze. Volle chiamare la madre, ma si ricordò che era morta. Provò a spiare da lontano le ragazzine che ballavano in palestra, ma i genitori fraintesero. Provò a chiudersi in casa, a leggere, ad ascoltare l’unico CD che possedeva (‘Nero’: due ore e mezza di puro silenzio registrato con le più avanzate tecniche acustiche). Rimpianse di essere astemio. Si chiese se doveva provarci: si guardò i piedi, guardò lo stereo. Fece un passo in avanti e un anca quasi si mosse. Disperato corse, una notte, sotto la pioggia, si inginocchiò, ed urlò al cielo infame.

In effetti era lì, un’attività a cui si dedicavano tutti, che generava un mercato di miliardi, che muoveva da millenni gli uomini a riunirsi attorno a tamburi di pelle. L’unica attività psico-motoria con fini puramente ludici perseguita da adulti e bambini, di tutto il mondo e tutte le razze, in tutti i tempi della storia, e perfino da qualche primate superiore dalle natiche scoperte: non aveva alcuno spazio nel suo sistema perfetto.

Trent’anni di vita seduto. A leggere.

E ora il ballo.

Che mondo di merda, pensò Lamacchia.

E così, stanco, con la barba sudata e avvolto dal pesante cappotto, prese un mese di aspettativa e salì sul primo aereo, a rintracciare la bella Greta.

«Mi spieghi.» disse Lamacchia davanti ad un caffè, in un bar sulla spiaggia catalana. E Greta ubbidì.

Con metodo, con una punta con sadismo, Greta introdusse Lamacchia nel mondo del ballo. Salsa, Hip-Hop, Dance, balli caraibici e varie forme di reggaeton, l’importante era non seguire il ritmo, o non solo quello. Greta sosteneva che il ritmo era un inganno, che seguirlo con precisione trasformava il ballo in ‘danza’, qualcosa di classicheggiante e formale, tecnico sì, bello perfino, ma il punto non era quello. Il punto, disse con gravità davanti alle pesanti tende tagliasuono di una discoteca alle due del mattino, era solo divertirsi. Saltare, sudare. Muovere il culo.

E Lamacchia ballò. Aiutato da una droghetta innocua che Greta lasciò cadere nel suo bicchiere, disperata alla vista di quel mucchio di muscoli rigidi che tentava di creare con gli arti qualcosa di sensato, Lamacchia ballò.

Ci volle tempo e pazienza, e la fame intellettuale di un uomo e la costanza di una ragazzetta lasciva. In un mese Lamacchia si scatenava sulla pista come se qualcosa di putrido e nero si fosse sturato dentro al suo petto, felice come se null’altro servisse al mondo. Da vedersi era orrendo: con quelle sue gambette magre e il torso secco e quadrato che si agitava a casaccio sembrava un tostapane posseduto da un frullatore. Ma un tostapane che rideva.

Finito il mese Lamacchia si sentiva rinnovato e vuoto, una vecchia casa in cui aprire due finestre opposte aveva cambiato tanto l’aria da sbiancare le pareti. Doveva tornare, ma tornare per cosa, poi? Al freddo del nord? Alle lande desolate, a scovare piccole discoteche o sagre estive tra i fiumi, piene di biondi ubriachi, a rievocare una pallida ombra di quel mese rivelatore? Lamacchia racimolò i propri risparmi, prese metaforicamente per mano la molto più giovane Greta, e la baciò.

Da cui in poi non si hanno dettagli oltre ad una cartolina di Santo Domingo, ingiallita dal sole e vecchia di due anni, inviata al rettore dell’università, suo unico amico. Sul retro della cartolina, scritto in voluminosi caratteri, questo criptico messaggio lascia sperare in un futuro ritorno del grande intellettuale, un ritorno che porterà scoperte che gli umili umanisti contemporanei non sanno ancora decifrare. Il messaggio dice così:

 

Caro amico. Nel mio primo libro scrissi che la filosofia ha inizio col terrore. Ma era lì, davanti ai miei occhi, ai nostri occhi. La filosofia comincia da philia. E permettimi la battuta, la philia comincia dalla phiga. Anche il sole aiuta.

Hasta la vista.

Fred Lamacchia

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Commenti: 11
  • #1

    Jappo (martedì, 21 ottobre 2014 08:06)

    Ahahah, l'ho letto senza capire bene dove fosse la "satira", ma arrivato all'ultimo paragrafo sono scoppiato in una fragorosa risata. Quasi morivo soffocato.
    Bellissima conclusione. Bravo!

  • #2

    Ruben (domenica, 26 ottobre 2014 19:14)

    Devo precisare una cosa: la frase "La filosofia moderna ha inizio col dubbio, ma la filosofia eterna ha inizio col terrore " è di Manlio Sgalambro (La morte del sole, Adelphi, 1982). Grazie Jappo!

  • #3

    VERA (venerdì, 31 ottobre 2014 11:35)

    Fantastico! Finalmente, così mi piaci, uno dei tuoi racconti migliori.

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