Un boccone di quiche

Ada Fama

«Pronto?»

«Buongiorno. La chiamo dallo studio del Professor Mancini.»

Era la voce di una donna, gentile e fredda, il genere di voce che ti aspetteresti da una segretaria: «Lei ha fatto dei controlli recentemente qui da noi, vero?»

«Sì» confermai col cuore in gola.

«Purtroppo è emerso che lei ha un tumore in stadio avanzato al cervello».

Raggelai. Avevo capito anche troppo bene e non me lo volevo sentir ripetere. Era il mio incubo peggiore e quella stronza aveva alzato un telefono per farlo diventare realtà.

«Quando posso passare per parlare con il professore?» balbettai.

«Non serve, mi creda. La malattia è ad uno stadio troppo avanzato, non ci sono cure. Si goda i suoi ultimi mesi di vita».

Riattaccò. Così, semplicemente. Mi aveva appena comunicato che stavo per morire e aveva riattaccato senza nemmeno dire ‘Arrivederci’, o ‘Mi dispiace’. E a cosa sarebbe servito? Che differenza avrebbe fatto il finto dispiacere di una persona che nemmeno mi conosceva e a cui non fregava niente di me? Eppure ne avevo bisogno, avevo un immenso bisogno di qualcuno che fosse dispiaciuto per il fatto che stessi per morire.

Morire...

Mi salì un nodo in gola. Quello sarebbe diventato il mio verbo, avrei dovuto farci i conti ogni istante.

Morire... che parola bizzarra... così breve, dal suono così neutro...

Abbassai gli occhi sulla pratica che stavo compilando. Una serie di lettere senza senso si susseguiva a formare un atto senza senso di una causa senza senso. La gente veniva da me a litigare per motivi futili, mi chiedeva di aiutarla a vincere qualche spicciolo per potersi togliere un diavolo di sfizio futile. Ma io stavo per morire, e nemmeno l'avvocato più bravo del pianeta avrebbe saputo difendermi per vincere quel contenzioso. Alla fine avrebbe vinto lei: la figura incappucciata, vestita di nero, con le scarpe consumate a forza di inseguire e divorare le vite inutili di tante persone inutili come me.

Mi alzai dalla sedia rovesciandola a terra per la foga.

«Marina! – urlai alla mia segretaria nella stanza accanto – Annulla tutti gli appuntamenti. Di’ ai clienti di rivolgersi a qualcuno migliore di me. E poi torna a casa: lo studio da oggi è chiuso. Di’ a tutti che non mi devono cercare. Sto bene, non voglio vedere nessuno».

Non rimasi ad ascoltare il suo stupore, le sue richieste di spiegazioni o la sua rabbia, o qualunque altra cosa fosse: non mi interessava. Mi tuffai nella mia auto. Solo ora mi rendevo conto di quanto fosse lussuosamente orrenda, e solo ora mi rendevo conto di odiare il nero, quello che da sempre era stato il mio colore preferito. Toh, tra qualche mese tutto sarebbe stato nero! Sembrava uno scherzo del destino.

Alzai il volume della radio al massimo per coprire i miei pensieri. Avevo paura di fare i conti con loro. Volevo solo dormire e dimenticare.

Entrai a casa e mi buttai sul letto. Sopra il comodino una bottiglietta di sonnifero alle erbe mi ricordò che ormai erano anni che non riuscivo più a dormire senza qualche piccolo aiuto. Ne trangugiai metà d'un fiato.

Mi risvegliai da un sonno pieno di incubi intrecciati e incomprensibili. Ogni tanto mi era parso di sentire il suono del citofono, di pugni contro la porta, ma forse li avevo sognati. Fosse durato per sempre quel torpore non mi sarebbe tornato in mente che... che io stavo per morire.

Afferrai di nuovo la bottiglietta e ingollai il sonnifero rimanente.

‘Prendimi adesso, stronza, prendimi adesso!’ pensai mentre bevevo.

Fu un'altra sequela di incubi, di agitazione, di malessere. Ma lei non mi aveva preso. Mi risvegliai in un crepuscolo che avrebbe potuto essere l'alba o il tramonto, o solo una giornata di pioggia. Avevo gli arti indolenziti a forza di stare a letto e avevo consumato tutto il sonnifero. Mi costrinsi ad andare a sciacquarmi la faccia: sarei andato in erboristeria a comprarne dell'altro.

Davanti allo specchio, mi passai una mano fra i capelli. Colsi il riflesso del mio orologio digitale: erano già passati quattro giorni da quando avevo ricevuto la telefonata. Avevo una faccia sconvolta, occhiaie scure nonostante avessi dormito come non mai, e un'aria talmente infelice da far concorrenza a un uomo che aveva divorziato e che era stato pure condannato a pagare gli alimenti.

‘Si goda i suoi ultimi mesi di vita’.

La mia aria infelice aveva buon diritto di esistere, ma quella stronza della segretaria del professore infame aveva ragione: ‘Si goda i suoi ultimi mesi di vita’.

Prima di ripensarci, mi buttai sotto il getto bollente della doccia. Dieci minuti dopo ero in macchina, senza bagaglio e senza telefono.

Imboccai il primo casello, in una direzione a caso. Guidai finché il mio stomaco iniziò a brontolare, e poi di nuovo.

All'alba del quinto giorno dalla telefonata mi ritrovai a Parigi. Non ci ero mai stato prima. Mi fermai in albergo giusto il tempo del check-in e mi fiondai a piedi nella capitale.

All'una decisi di mangiare in un bistrot a caso. Scelsi un tavolo davanti a una finestra: non volevo più perdermi un istante di vita, che fosse la mia o quella dei passanti.

Infilai un boccone di quiche mentre osservavo una ragazza dai capelli rossi che camminava con la testa china sul cellulare. Come avesse percepito il mio sguardo, lei si voltò.

Gaia?

Gaia!

Mi precipitai fuori dal locale e la raggiunsi: «Gaia! Ti ricordi di me?».

Dopo cinque minuti sedevamo l'uno di fronte all'altra, felici come ragazzini. Ed effettivamente ragazzini eravamo l'ultima volta in cui l'avevo vista: lei era stata mia compagna di classe al liceo, innamorata di me per cinque anni senza mai prendere il coraggio di confessarmelo. Non ricordavo perché non la considerassi all'epoca, ma guardandola ora mi resi conto che solo un idiota come me avrebbe potuto lasciarsela sfuggire.

Ci raccontammo le nostre vite, anche se omisi di dirle che la mia era agli sgoccioli.

Gaia fu la miglior guida di Parigi che potessi desiderare. Viveva lì da tre anni.

«Ti va di venire a fare un viaggio con me?» le chiesi, di punto in bianco, una sera a cena. «Dove vuoi tu».

Lei fu abbastanza pazza da accettare, così il giorno seguente prendemmo un aereo per Città del Messico.

Ogni mattina il risveglio era stupendo accanto a lei. Ma ogni mattina non potevo scacciare il pensiero che mi restava un giorno in meno. Eppure ogni giorno avevo una manciata di energie e di voglia di vivere in più: non mi ero mai sentito così pieno, così vitale come davanti ai paesaggi mozzafiato che ammiravo con la donna che ormai amavo.

Gaia decise di venire a Bologna con me. La portai dai miei genitori, che non vedevo da mesi perché ero sempre troppo preso dal lavoro. Cominciai a frequentare solo le persone che veramente mi andava di vedere, e a fare solo le cose che veramente mi andava di fare. Ripresi in mano lo studio ma con un atteggiamento molto più rilassato.

La mattina del mio trentaduesimo compleanno il primo pensiero che mi frullò nella mente fu che erano passati ormai tre mesi e che la ‘figura incappucciata’ non aveva ancora intenzione di mettersi sulle mie tracce. Io di certo non me ne lamentavo!

Invitai a cena Matteo, il mio migliore amico, e sua moglie Elisa. Mentre ero fuori sul terrazzo a fumare una sigaretta, lui mi raggiunse: «Ti devo confessare una cosa».

«Anch’io» risposi, decidendo all'istante di parlargli del cancro.

«Prima io» mi fermò. «È stata Elisa a fingere la telefonata dallo studio del Professor Mancini».

Gli tirai lo schiaffo più potente che avessi mai dato nella mia vita. Dopo un attimo, mi trovai ad abbracciarlo piangendo come un bambino.

 

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Commenti: 1
  • #1

    anibla (venerdì, 16 gennaio 2015 23:51)

    Bellissimo il tuo racconto,Ada

    Che tristezza,che paura e....,che felicità