Francesca apre la lavapiatti, risponde al telefono e grida a suo figlio di scendere dal letto, il tutto contemporaneamente.
Il sottofondo musicale è dato dal cane che abbaia al vicino che taglia l’erba.
La donna urta la tazzina di caffè sul tavolo che, ovviamente, si rovescia, merda.
Si siede.
Non cerca la spugna annegata nel lavandino, lascia che il caffè disegni venature scure sulla tovaglia bianca, incontri il giornale, e che quelle lettere, piccoli scarafaggi, si inzuppino della sua droga mattutina.
‘AAA cercasi agente di commercio rappresentante’ il caffè nasconde, non sottolinea le parole dell’annuncio.
Aveva fatto per venti anni quel lavoro, per trovarsi sostituita da una stagista, una ragazzetta che aveva tutta l’ingenuità di un extraterrestre appena sbarcato.
Stagista è un nuovo termine per definire lo sfruttamento di giovani, mal o direttamente non pagati; la scusa migliore per mandare a casa chi ‘non è più al passo coi tempi’ e poi si sa: ‘c’è crisi’.
«Mamma non ho voglia di andare a scuola, ho il compito di matematica, posso stare a casa?», chiede Enrico senza nemmeno salutare.
Ha tredici anni, è soggetto alla più atroce delle malattie: l’adolescenza.
«Enrico, la scuola è il tuo dovere, ora prendi lo zaino ed esci. Se prendi quattro di matematica la prossima volta imparerai che non si può pensare di studiare tutto all’ultimo secondo.»
«Sai cosa vorrei, mamma? Che licenziassero anche a me.»
La guancia di Enrico si arrossa prima ancora che si senta il rumore dello schiaffo, prima ancora che Francesca si renda conto di ciò che ha appena fatto.
«Non ti permettere di dire una cosa simile.»
Il lavoro nobilita l’uomo, il non trovarlo corrode l’anima.
Sul ripiano della madia dieci curriculum fascicolati, almeno il doppio sulla scrivania di altrettante aziende.
Nessuna risposta.
Carta da riciclo.
Enrico si chiude la porta alle spalle mugugnando qualcosa di incomprensibile.
Francesca apre l’armadietto dei detersivi, tra lo sgrassatore per i piatti e la cera per i pavimenti l’etichetta gialla del rum si vede appena, miele nel bicchiere della tristezza.
Scivola per la gola, caldo, un fremito agita appena il vestito azzurro di Francesca e sulle labbra il primo flebile sorriso.
Non avrebbe fatto nulla per tutto il giorno, non avrebbe fatto nulla anche nei giorni a seguire.
Si riscuoteva da quel torpore solo all’arrivo del figlio, per poi ripiombare in quella gabbia bianca di pensieri e soluzioni.
Il campanello suona quel giorno. La realtà è messa a tacere, messa in ginocchio in un angolo, sente solo al secondo squillo.
Il pollice fa girare la rotella dell’accendino, la fiamma trema appena, è la mano che trema e la sigaretta si accende.
Il campanello suona, ancora.
«Signorina c’è una raccomandata per lei.» La donna richiude la porta con una busta in mano.
Sono gli auguri della sua azienda per il suo compleanno, nessuno si era preso la briga di avvertire le segretarie di eliminare il suo nome dai contatti.
Con un gesto automatico afferra il giornale, la grafite si sbriciola sul foglio creando piccoli cerchi argentati intorno alle proposte di lavoro interessanti.
La matita incontra la macchia del caffè, esita.
Il destino non è indifferente agli uomini, è un bimbetto cinico che tormenta le lucertole staccando loro la coda.
Francesca compone il numero della azienda, la segretaria risponde, prende i dati e fissa l’appuntamento per il martedì dopo.
Gonna grigia, giacca grigia, scarpe nere, camicia bianca.
L’omone è nascosto dietro alla sua trincea di marchingegni high-tech, le armi del nostro secolo, le sorride sicuro.
Per un secondo la donna si domanda se l’uomo, rispettabilissimo Signor F., non si sia accorto che alle sue spalle ha un muro e che dunque, la sua postazione d’attacco non è che una gabbia e che lottiamo in continuazione solo per conquistare gabbie più grandi.
Un pesce in un acquario è libero quanto un pesce in una boccia di vetro.
«Lei guardi, ha un curriculum brillante, tutte le carte in regola per poter essere un ottimo elemento in questa azienda, ma sa: talvolta le carte non bastano. Serve avere testa, ma anche le gambe hanno una certa importanza, e lei mi sembra abbia delle splendide gambe. Il tutto sta nel sapere a chi mostrarle, lei è disposta a mostrarmele?»
Le parole si ripetono nella testa di Francesca, si incidono sulla sua pelle, scivolano nella sua gola, rum che l’ammazza.
Enrico rientra in casa.
Francesca lo guarda negli occhi, quegli occhi a cui deve un futuro.
Lavoro: rum che l’ammazza e la tiene viva, la intorpidisce, rende sopportabile il mondo.
«Ho trovato un lavoro»
Francesca sorride appena.
Scrivi commento