Le contrazioni della Storia

Giulio Boato

«Stai buono, stai buono». ‘Ntoni guarda il fratello Cola con faccia inespressiva. Se ne sta lì, seduto sul bordo dello scafo, agitando convulsamente le mani. Il resto del corpo non si muove, le mani fendono inutilmente l’aria davanti al suo petto. Gli spasmi di ‘Ntoni fanno ondeggiare la piccola imbarcazione. Cola gli prende i polsi e lo costringe a fermarsi. «Stai buono, ‘Ntoni. Siamo quasi arrivati». Un debole chiarore grigiastro scolpisce la linea dell’orizzonte, mentre la barca a vela avanza, lentamente, verso riva. Le reti sono ancora immerse in acqua: le loro maglie sfilacciate hanno trattenuto talmente poco pesce che non vale neanche la pena tirarle a bordo. Poco lontano, si distinguono le vele degli altri pescatori. Si trascinano stancamente verso terra, spingendo in avanti le piccole lanterne ad olio che ne illuminano la prua. Cola controlla il vento, e si prepara ad ammainare la randa. «Dammi una mano, dai». Il fratello non risponde, resta fermo al suo posto, lo sguardo fisso nell’acqua scura, là dove pendono le reti vuote. «’Ntoni, svegliati, santiddio! Tira la scotta, che se no la vela ci cade in acqua». ‘Ntoni si alza, automaticamente, e si prepara all’operazione. Un gesto meccanico, che compie tutte le notti più e più volte, assieme al fratello. Alle tre si esce in mare, si gettano le reti al largo degli scogli dei Ciclopi, si aspetta, in silenzio, sino alle sei del mattino, poi si tirano su le reti e si torna a Trizza all’alba. Ogni notte, da quando ha quattordici anni. E ogni mattina, c’è un pesce in meno nella loro rete. ‘Ntoni è primo di cinque fratelli, il capofamiglia da quando il padre è morto. Deve portare a casa da mangiare. Ma il mare ha cominciato a svuotarsi, e lui non sa fare altro che pescare. E un pescatore senza più pesce da pescare, diventa matto. I primi segni della malattia sono arrivati qualche mese fa: piccoli tic, mancanza di coordinazione. Man mano sono peggiorati, trasformando ‘Ntoni in un guscio vuoto scosso dalle contrazioni. Ogni mattino, rientrando in porto, Cola assiste alla degenerazione del fratello. Ormai non riesce nemmeno a compiere le operazioni più semplici. Mentre Cola fa scorrere la randa lungo l’albero, ‘Ntoni si lascia sfuggire la scotta, facendo cadere in acqua la vela. Sbilanciato, lo scafo oscilla rischiando di rovesciarsi. Con un balzo, Cola sgancia le reti abbandonandole al mare. Meglio perdere le reti che la barca. L’albero torna perpendicolare all’acqua, ma ormai la prua punta dritta verso il mare aperto. Cola va alla barra e cerca di rimettere la barca in posizione d’attracco, prima di scontrarsi contro il molo. ‘Ntoni guarda fisso nell’acqua, là dove c’erano le reti. La sua posizione è rimasta immutata durante tutta la manovra.

 

«Taglia!». Il primo assistente urla nel megafono, mentre il macchinista riporta la gru in posizione di partenza. «Tutti ai propri posti, la giriamo di nuovo!». Le truccatrici passano veloci tra le comparse ammassate sulla spiaggia, per aggiustare qualche ritocco alle facce più vicine alla macchina da presa. Sonia indica alla sorella la bambina in prima fila: «Dille di smetterla di sorridere, ti prego, che prima il regista l’ha vista e voleva cacciarla dal set». Mara corre dalla bambina, e ne approfitta per ritoccarle il trucco sulle guance. Le spiega che deve cercare di non ridere per qualche minuto, finché girano la scena dell’arrivo dei pescatori: «Tu sei qui che guardi il papà e lo zio che rientrano dalla pesca, ma la barca rischia di rovesciarsi e tu hai tanta paura. Hai capito perché non puoi ridere?» La bambina fa la linguaccia e si divincola dalle mani della truccatrice. «Sono ogni giorno più insopportabili» sibila Mara alla sorella, mentre riprendono assieme il giro tra le comparse. «Non sanno neanche di cosa parla il film, e si credono tutti grandi star». Sonia sospira: «Tutta colpa del regista: andare a pigliare gli attori tra la popolazione… non ce n’è uno che parla l’italiano, non capiscono niente di quello che gli si dice». «Motore partito!» urla il direttore della fotografia e le due sorelle si affrettano ad uscire dal set. Ricordano come fosse ieri la chiamata dalla produzione: dopo più di un anno di disoccupazione, due mesi di lavoro come assistenti al trucco per un film in Sicilia. Hanno firmato senza chiedere nulla di più e si sono trasferite ad Aci Trezza, dove si gira il film. Sono alloggiate male, in vecchie case di pietra, fredde e umide, ma almeno saranno pagate. Dalla fine della guerra, è il loro primo incarico. Fino al ‘39 lavoravano a Cinecittà, dal ‘40 i fondi per il cinema sono stati limitati ai cinegiornali, e le produzioni si sono bloccate. Le due sorelle sono rimaste senza lavoro, e Mara ha cominciato ad avere crisi di nervi. Non riusciva a star ferma, agitava le mani senza controllo. All’arrivo del nuovo incarico, le due truccatrici si sono precipitate sull’isola senza neanche aver letto il copione. «Ma tu l’hai capito di cosa parla questo film?» chiede Mara alla sorella, allo stop del terzo ciak. «Mi sembra che è una specie di storia sulla sfiga dei poveracci», risponde Sonia. «Ma quali poveracci, qua c’è l’Universalia che paga per tutti!» replica sarcastica la sorella. «Intanto però io non ho ancora visto un soldo, cara mia». Il primo assistente annuncia la pausa pranzo. Sonia e Mara si alzano, e seguono la troupe verso la mensa. Quella, quantomeno, è gratis.

 

«12 euro? Per andare a vedere un film in bianco e nero degli anni ‘50? Ma tu sei fuori se pensi che vengo». «È del ’48, ad essere precisi, e costa un po’ più del solito perché è la versione integrale restaurata». «Me ne frego, io non ci vengo». Marco si allontana, lasciando Lisa sola davanti al botteghino. «Se non vieni come la fai la relazione per la Beltrame?». Marco non ha mai sopportato l’ingenuità di sua sorella. Senza guardarla, le risponde: «Mai sentito parlare di Wikipedia?». Lisa lo raggiunge e lo tira per la giacca: «Idiota, cosa credi, che Wikipedia ti fa l’analisi del film?». Marco le mette sotto il naso il suo telefonino, sul cui schermo brilla una pagina Google, e recita: «La terra trema è un film del 1948 diretto da Luchino Visconti e ispirato al capolavoro del verismo… Basta aggiungere qualche stupidaggine in più e la tesina è bella che fatta. Io vado al parco, ci vediamo a casa». Lisa per un momento rimane interdetta, immobile, mentre il fratello si allontana. Lei l’ha già visto due volte, il film. Al liceo, durante un’occupazione, e all’università, al corso di semiotica dell’arte. Si è sempre addormentata prima della fine, e per una volta vorrebbe vederlo tutto. Non le è mai piaciuto il neorealismo, tantomeno il verismo. I Malavoglia gliel’avevano dato da leggere in quarta ginnasio, per le vacanze. Una tortura che non finiva più. Più leggeva, e meno riusciva a credere nella buona fede dell’autore: com’era possibile che quell’insieme di sfighe potesse abbattersi su una sola famiglia? Quel senso di fatalità, di inevitabilità del male le era sembrato una prova del sadismo di Verga più che un esempio di realismo sociale. Quantomeno Visconti aveva riletto il romanzo in chiave marxista, personificando la malasorte nel capitalismo. Ma anche in quel caso, non riusciva ad apprezzarlo. Cosa avevano in comune con lei, con i suoi ventidue anni, la sua laurea con lode a Brera e il suo appartamento in centro a Milano, cosa avevano in comune dei personaggi così disillusi, miserabili e sfortunati? Così legati ai capricci della natura o del mercato da soccombere per mancanza di… pesce? Con un sospiro, Lisa tira fuori una banconota da venti e paga il biglietto d’ingresso al cinema. Nel rimettere il portafoglio nella borsetta, una scossa alla mano le fa perdere la presa. «Ma porca…». Il portafogli cade a terra, vicino alla pagina svolazzante di un quotidiano. 2014: record storico per la disoccupazione giovanile, cita il titolo. Lisa scosta con un piede il giornale, raccoglie il portamonete e varca la soglia del cinema, mentre la sua mano destra continua a contrarsi, involontariamente, nella tasca del giubbotto.

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