'La paura'

Ada Fama

Buio.

Eravamo il buio ed io a farci compagnia.

Il rumore dei miei tacchi risuonava lungo tutta la stradina, ritmico e nervoso. Nervoso come me. Nervoso forse mai quanto me.

Avevo appena litigato con quell’imbecille di Alessandro. Per l’ennesima volta. Ci eravamo detti cose sgradevoli. Avevamo giocato per due ore abbondanti a chi riusciva a mirare meglio al cuore dell’altro, a chi riusciva a spingere più a fondo la motosega del rancore nelle piaghe dei nostri sentimenti. Ci eravamo rinfacciati tutto, fino alle stupidaggini più insignificanti:

«Sei una fighetta che si prende troppo sul serio! Com’è che non sai più ridere di una battuta?»

«Probabilmente perché non fanno ridere. O probabilmente perché mi irrita che nel tuo patetico tentativo di piacere agli altri tu riversi su di me la tua mancanza di autoironia».

«E allora vatti a cercare uno zerbino che ti sappia compiacere, non sarò io a farlo».

E chi lo voleva uno zerbino? E chi lo voleva Alessandro? E chi sapeva cosa voleva veramente? Forse volevo solo avere accanto una persona capace di amarmi per quello che ero, con i miei difetti, con le mie debolezze. Forse volevo una persona capace di colmare le mie insicurezze, non di accentuarle ad ogni buona occasione. Una persona capace di sostenermi, era chiedere troppo?

La debole luce della luna illuminò la grata di un tombino giusto in tempo per evitarmi di infilarci la punta del tacco a spillo. Feci un piccolo balzo per superarlo. Barcollai per ritornare in equilibrio. Mi fermai e ripresi fiato.

Mi sembrò che qualcosa si stesse muovendo dietro di me. Un attimo di indecisione. Tesi l’orecchio. No, non era nulla.

Ripresi il mio incedere ticchettante. La via era ancora lunga e io ero ancora lontanissima da casa.

Mi parve di sentirlo di nuovo. Più forte, più vicino.

Mi fermai.

Niente.

Non resistetti alla tentazione di girarmi. La luce argentea della luna mi mostrò solo il tratto di strada che mi ero appena lasciata alle spalle.

Un altro passo, incerto. Un altro. Altri due, leggermente più decisi. Non mi sarei più voltata. Mi stavo lasciando suggestionare.

O forse no…

Qualcosa si stava decisamente muovendo dietro di me ed era qualcosa che procedeva con passo pesante e veloce. Qualcuno che procedeva con passo pesante e veloce.

O forse non erano passi…

Il cuore mi balzò in gola. Tentai di controllare il respiro. Diavolo, facevo yoga da anni, com’era possibile che non riuscissi a recuperare l’autocontrollo?

Tuffai la mano destra nella borsetta per recuperare le cartine.

Chiavi… fazzoletti… custodia degli occhiali… trousse… cartine. Ne sfilai una e ributtai il pacco nella borsa.

Caramelle… fazzoletti… pacchetto di filtrini. Lo agguantai e mi misi un filtrino fra le labbra.

Igienizzante per le mani… deodorante… tabacco.

Stropicciai la plastica nel modo più rumoroso possibile per coprire il silenzio denso che mi avvolgeva. Il sacchetto era la mia musica, la mia compagnia in quel frangente di nulla.

Rollai una sigaretta con mani tremanti. Metà del tabacco volò sull’asfalto. Ne presi dell’altro e mi cadde nuovamente a terra. Un’altra manciata ancora. Finalmente riuscii a chiudere un carciofo che si potesse considerare fumabile. Pescai l’accendino imbattendomi ancora nelle chiavi e in tutto il resto. La fiamma mi riscaldò per un istante ma fu troppo breve. Ricaddi nel buio e nel vortice di pensieri.

Ero troppo grassa e la mia stazza mi pesava. Avevo i denti storti e il mio sorriso mi pesava. Ero timida e il mio carattere mi pesava. E Alessandro mi faceva pesare tutto il triplo. Era talmente egocentrico che, pur di stare al centro dell’attenzione, ci trascinava anche me. Un bambino capriccioso.

Aspirai una boccata di sigaretta con rabbia.

Lo sentii di nuovo, più vicino che mai. Erano dei passi. Erano decisamente dei passi. Ora ne ero più che sicura.

Un accesso di tosse causato da una boccata di fumo troppo profonda per i miei polmoni. Bene: come se i tacchi non bastassero, avevo aggiunto una bandierina ‘Ehi, inseguitore, sono qui!’.

Pescai il cellulare. Odiavo doverlo fare ma chiamai Alessandro.

Uno squillo.

Un altro squillo.

«…il cliente da Lei chiamato non è al momento raggiungibile».

Mi aveva sbattuto il telefono in faccia lo schifoso!

«Ciao tesoro, sì, sto arrivando» finsi. Non avevo niente da perdere. «Ah, mi stai venendo incontro? Grande! A tra poco».

Ributtai il telefono in borsa.

Un’altra boccata di fumo. Altri passi più vicini.

Il cuore mi batteva all’impazzata.

Mi bloccai. Non sarei riuscita a raggiungere la luce della strada principale prima che l’inseguitore mi raggiungesse. La via piombò in silenzio senza i miei tacchi, ma quei passi erano ancora lì dietro, ritmici. La luna brillava ancora fioca lassù, ignara della mia paura folle. Paralizzata, la fissai per immergermi nella sua luce amica.

«Scusa, avresti da accendere?».

Trasalii. Dal nulla una voce di uomo si era materializzata alla mia destra. Era una voce calda, allegra. Una voce come quella di…

«A-Alessandro?» balbettai.

La figura davanti a me mi accarezzò il braccio: «Sì».

Il sangue lasciò la punta dei piedi per tornare a fluire lungo le gambe, fino allo stomaco, fino al cervello. Mi resi conto di star battendo i denti nonostante fosse luglio.

«Scusami per prima, tesoro» sussurrò lui.

Mi sciolsi in una risata isterica. Ero un’idiota. Mi venne in mente ‘La paura’ di Giorgio Gaber. Avevo sempre riso di gusto ascoltandola, immaginandomi l’assurdità della situazione che ‘Il Signor G’ descriveva in modo così vivido. Eppure mi ero lasciata attanagliare anch’io dalla folle angoscia che potesse succedermi qualcosa per colpa di alcuni passi sconosciuti che si muovevano dietro di me. Ero un’idiota.

Alessandro si chinò per baciarmi con dolcezza. Chiunque con un briciolo di razionalità gli avrebbe mollato un pugno in piena faccia. Ma non io. Sapeva come prendermi. Sapeva come sorprendermi. E io non potevo fare altro che cedere al mio cuore impazzito. Che strano modo ha di ragionare una donna… è proprio vero che ci si innamora degli stronzi, è proprio vero che ci basta un gesto giusto al momento giusto per farci dimenticare tutto il disprezzo che abbiamo provato fino ad un secondo prima.

Lo strinsi a me come fosse una scialuppa di salvataggio. Non mi interessava sapere se fosse sua intenzione spaventarmi, avevo solo voglia di sentirlo vicino.

Un’altra nuvola ricoprì la luna.

Eravamo di nuovo il buio ed io a farci compagnia, ma ora non eravamo da soli. E ora il buio faceva meno paura.

Scrivi commento

Commenti: 0