Metà strada

Tatjana Motta

Si svegliò perché era troppo sudata. Per prima cosa dovette assicurarsi di essersi svegliata per davvero. A volte le capitava di svegliarsi, ma il suo corpo rimaneva come immobilizzato. La sua mente era pronta, il corpo no. Era come non riuscire a scollarsi dal sonno. Come se i sogni la trattenessero giù invischiata. Le faceva paura, quando il suo corpo non voleva ascoltarla, ma non l’aveva mai detto a nessuno.

Tese l’orecchio, sentì gli ululati dei cani. Qualcuno stava passando lungo il sentiero che andava verso il paese. Aveva caldo. Il pigiama le si era incollato alle gambe e alla schiena. Forse ne aveva scelto uno troppo pesante. Se ci fosse stata la mamma, le avrebbe detto che quel pigiama non andava bene. Cercò il papà. Doveva essere lì, gli aveva chiesto di rimanere in casa perché non voleva dormire da sola. Aveva paura di vedere qualcosa di spaventoso, ma non aveva avuto il coraggio di dirglielo. Gli aveva chiesto semplicemente di non lasciarla sola.

Papà non dormiva mai di notte. Preferiva lavorare, perché faceva più fresco. Di giorno lo vedeva dormire sul divano, nel soggiorno al piano terra e bisognava sempre fare piano, per non disturbarlo. Gli aveva chiesto di non scendere nella falegnameria, solo per quella notte, in cui la mamma aveva dovuto dormire fuori. Lo cercò, ma sembrava non esserci. Tutte le luci spente, un buio denso che si tagliava col coltello. Pensò al coltello ed ebbe paura. Paura di incontrare qualcuno per le scale. Un’ombra, una minaccia; aveva paura di vedere qualcosa di orribile, che gli altri non le avrebbero creduto, avrebbero detto che era pazza, che non era mai stata una bambina a posto, lei stessa non avrebbe più saputo riconoscere che cos’era il vero, nessuno l’avrebbe più amata.

Scese fino alla porta che dava sul giardino, la aprì, l’oscurità le si parò davanti, inglobandola. Percepì il mondo esterno davanti. La casa vuota alle sue spalle d’un tratto diventò inquietante, possibilmente pericolosa. Doveva solo costeggiare la casa, girare l’angolo e allora avrebbe visto la luce accesa nella falegnameria. Se fosse riuscita ad arrivare fin lì, senza vedere niente di minaccioso, allora sarebbe stata salva. Avrebbe chiesto al papà di riaccompagnarla di sopra e di non andarsene di nuovo, per favore, che non riusciva a dormire altrimenti. Temeva che qualcuno sarebbe entrato in casa per prenderla, l’avrebbe rapita, portata via per sempre, lei sarebbe cresciuta infelice in un luogo lontano, e piano piano, sotto minacce e torture, si sarebbe dimenticata la strada per tornare a casa, il viso dei suoi genitori, il suo vero nome. Oppure aveva paura che i morti venissero a parlarle, allora, se avesse visto un morto tornare, avrebbe superato quel confine oltre il quale non si è più come gli altri e gli altri non ci possono più stare vicini. C’era da stare attenti, ma se non fosse stata sola, avrebbe potuto abbassare la guardia e dormire. Solo per questa notte, che non c’è la mamma.

Si tuffò nel buio pesto del giardino trattenendo il respiro. Corse a piedi nudi sfiorando con la mano il muro; era caldo. La sua casa, si disse, era un luogo sicuro, doveva solo portarci dentro anche il papà. Arrivò all’angolo che l’apnea stava diventando insostenibile, mentre svoltava, il diaframma si contrasse, per permettere ai polmoni di riempirsi. L’aria entrò violentemente, il cuore batteva forte. Faceva male. La luce nella falegnameria era spenta.

 

*

 

Si accese un’altra sigaretta, l’ultima del pacchetto di scorta. La giornata era stata pesante. Troppo intensa. Così non aveva fatto in tempo a fermarsi a comprarle. Dalla finestra vedeva oltre gli alberi, i campi scuri, un mare nero, e all’orizzonte le luci del paese.

Si assicurò che la bambina dormisse. Era immobile ma non la vide, perché aveva nascosto la testa sotto il lenzuolo. Dal respiro, lento e regolare, giudicò che stesse dormendo. Se ci fosse stata Marta non sarebbe stato un problema. Ma aveva scelto di dormire da suo padre: era preoccupata che passasse quella notte da solo, dopo aver portato sua moglie all’obitorio. Scese in giardino. Era abituato all’oscurità. Preferiva lavorare di notte: c’era fresco e lì, in aperta campagna, nessun vicino si sarebbe lamentato del rumore. Il lusso di vivere qui da per noi, diceva sempre. La prima casa era a più di settecento metri e ci stava solo un vecchio, con il suo allevamento di Spaniel. Quella cinquantina di cani che ululava, guaiva, abbaiava nel mezzo della notte, al solo battito d’ala di un uccello. Si avviò a piedi per non svegliare la bambina accendendo l’auto. Era certo che stesse dormendo di un sonno profondo. La morte della nonna doveva essere stata una dura prova; in macchina, al ritorno dall’ospedale, era stanca. Non aveva detto una parola, era rimasta rannicchiata sul sedile posteriore, lui l’aveva guardata dallo specchietto retrovisore e gli sembrava che sonnecchiasse.

Quando passò davanti all’allevamento di cani, si scatenò il coro di ululati. Ci erano così abituati che sembrava un canto consueto della notte, come per qualcuno lo è quello dei grilli o dei gufi.

 

*

 

Si appoggiò al muro per sorreggersi e si concentrò sull’oscurità. I suoi occhi si stavano abituando e il buio non era più così denso. Ci volle del tempo per recuperare un respiro regolare e non interrotto da apnee. Non avrebbe saputo dire quanto ci mise.

Qualcuno aveva fatto del male al papà? Per chi avevano ululato i cani? Tese l’orecchio per sentire. Un gufo. Niente. Poi la vide: in ritardo, imprevedibile, ipnotica, una lucciola le passò davanti agli occhi. La lucciola svanì e fu di nuovo buio. La sua scomparsa rendeva di nuovo la notte nera e corposa. Poteva rientrare in casa. Ma quante ore mancavano al mattino? Mossa da un’improvvisa determinazione si staccò dal muro e si gettò nel buio. Conosceva quella strada e sarebbe arrivata a piedi a casa del vecchio. Forse si sarebbe fermata lì o avrebbe proseguito fino al paese, fino a casa dei nonni, dove finalmente avrebbe trovato la mamma. Le avrebbe raccontato che il papà era scomparso. Lei le avrebbe lavato i piedi, le avrebbe messo un pigiama pulito e le avrebbe detto di dormire, che presto il papà le avrebbe raggiunte lì.

Correva e si accorse che grosse lacrime gonfiavano i suoi occhi, rendendo offuscata la vista, già provata dalle tenebre.

Poi la lucciola riapparve. La vide attraverso le lacrime, offuscata e lontana. Oscillava in uno strano modo. Si pulì gli occhi con la manica. Non era una lucciola: era una luce gialla, circolare, sobbalzava lievemente, con una certa intermittenza, era lontana, in fondo alla strada, ma sembrava farsi più grande. Le intermittenze della luce si dilatavano esponenzialmente. I cani ulularono di nuovo, erano più vicini. Abbaiavano energicamente gli uni sugli altri non lasciando alcun tempo al silenzio, e lei si fermò incerta se scappare dalla luce misteriosa o correrle incontro.

 

*

 

Una mano in tasca stringeva il pacchetto di MS morbide appena comprato, l’altra teneva la torcia. Fumava continuando a tenere la sigaretta in bocca. Era un’abitudine che aveva preso lavorando alla falegnameria, dove aveva le mani sempre occupate. Anche suo padre lo faceva. Anche suo padre passava poco tempo in casa. Lui era fatto allo stesso modo. In casa ci stava solo per dormire. Pensò alla bambina. Non avrebbe dovuto lasciarla sola. Marta non avrebbe approvato. Non sapeva perché, ma qualcosa lo turbava nel rimanere solo con lei. Forse la sensazione che improvvisamente avrebbe potuto avere bisogno di qualcosa e che lui non avrebbe saputo capirla. Forse l’idea che anche lui avrebbe potuto, in un qualche modo, avere bisogno di lei.

La torcia si stava scaricando. Funzionava ad intermittenza. Non voleva che smettesse di funzionare e si pentì di essere uscito a piedi. Nel buio totale non ci vedeva bene. Stava perdendo punti di vista ma non riusciva ad affrontare l’argomento con nessuno. Come avrebbe fatto con il lavoro? Avrebbe fatto la fine di suo padre. Mezzo cieco e solo. Esagerava, certo, glielo diceva sempre Marta, ma lo inquietava che nel suo corpo qualcosa potesse non funzionare.

Sentì i cani. La luce si spense. Proseguì al buio lasciandosi guidare dal frastuono degli animali. Sembravano dei tuoni impazziti. La luce si riaccese, poi si spense, poi si riaccese fioca e illuminò quella piccola cosa. Il pigiamino giallo e i piedini nudi. Il pianto assordato dai cani. La bambina gli corse incontro e gli si avvinghiò.

 

*

 

Rientrarono insieme. La carica della torcia si era completamente esaurita, ma gli occhi di lei ci vedevano bene nell’oscurità e ora che aveva ritrovato il padre scomparso, avrebbero potuto sopportare il buio insieme fino al mattino. Sarebbero stati forti.

Guidami tu, le aveva detto, che finché ci sei ci vedo bene anche io.

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