18 maggio 2195.
Michelle si agita sulla sedia come una bambina sovreccitata, gli occhi incollati alla dozzina di olomonitor davanti a lei, diagrammi e indici che scorrono e fluiscono e lampeggiano.
Anatolij le poggia una mano sulla spalla nel tentativo di calmarla. Dopotutto, dall'altra parte della videosfera che fluttua in silenzio sopra di loro, li osservano i grandi capitani dell'umanità.
Michelle alza lo sguardo verso il suo viso – lacrime di commozione, un sorriso trionfante - «È tutto perfetto, Tolja. Assolutamente perfetto.»
Dall'altra parte della stanza giunge il sospiro di Edwin; contagiato dall'eccitazione di Michelle, Anatolij gli indirizza uno sguardo luminoso.
Il ragazzo prodigio non ricambia. Il rompicapo incomprensibile delle console di controllo lo circonda quasi completamente, un labirinto di pulsanti, leve e indicatori che l'uomo di Novgorod aveva impiegato mesi a memorizzare, ma nel quale il ragazzo di Little Rock si era mosso dal primo giorno come il minotauro della leggenda.
«Parlami, little boy» gli dice Anatolij, la voce calda e sonora.
«Tutto perfetto, batjuška* – gli risponde lui – nessuna fluttuazione anomala, niente picchi o cadute. Siamo stabili.»
Anatolij annuisce, spostando l'attenzione all’osservatorio di vetro oscurato che occupa quasi metà della parete circolare.
Dietro quel cristallo spesso un braccio, si trova l'oggetto della loro attenzione, dell'attenzione dell'intero terzo pianeta. Una finestra che sarebbe stata inutile sulla Terra, il vetro così ingolfato di pigmenti neri da rendere quasi impossibile il passaggio della luce, come una gigantesca maschera da saldatore.
Qui, quel materiale impenetrabile alla radiazione visibile è a malapena sufficiente a respingere il bagliore che alberga dietro di esso.
Al centro di una massa di elettromagneti che lottano per mantenerla integra contro la forza esplosiva della fusione nucleare, è sospesa una stella. Minuscola, fatta dagli uomini e in orbita, assieme alla stazione che la ospita, al limite esterno della corona solare.
L'umanità ha investito il proprio futuro in questo progetto. Energia pulita, economica, universale.
Infinita.
Anatolij si rivolge all'occhio impassibile della videosfera che sta trasmettendo sulla Terra tutto ciò che avviene in quella piccola stanza tonda.
«Eccellenze – esordisce, e si emoziona all'idea di dare inizio con le sue parole ad una nuova era. Dice proprio questo – forse è presto per dirlo con certezza, ma io credo che oggi inizi una nuova era per l'umanità.»
La videosfera emette un basso ronzio e fluttua fino al suo alloggiamento nel soffitto, dove si spegne con un sospiro.
Anatolij la segue perplesso con lo sguardo, finché l'inconfondibile sibilo di una pistola elettrica risuona nella stanza.
Michelle non si accorge nemmeno del sottile proiettile che le si infila nella nuca, scaricando direttamente nel suo midollo spinale quattro ampère di morte silenziosa. Cade riversa sui monitor e poi scivola a terra con un tonfo sordo.
Anatolij sta già guardando con orrore il giovane d'oltreoceano e la stretta bocca dell'arma puntata al proprio petto.
«Edwin...?»
«Mi dispiace, batjuška – risponde l'altro, scuotendo appena la testa – mi dispiace davvero.»
Anatolij sente solo una leggera puntura nel centro del petto e il suo cuore esplode.
Edwin lascia cadere l'arma e si rivolge alla console.
In silenzio, si guarda le mani tremanti.
Li ha uccisi.
Respinge le lacrime con violenza. Ha solo otto minuti prima che il comando sulla Terra si accorga che la stazione non sta più trasmettendo. Sedici, prima che arrivi fin lì l'impulso di sicurezza, che l'avrebbe escluso da ogni sistema. Tre sono già passati. Allarga le dita sulla console e comincia a lavorare rapidamente.
Tredici minuti.
Gli Stati Uniti avevano pagato la sua educazione e le Grandi Menti dell'Umanità lo avevano accolto come un pari. Era salito così in alto sulla scala da essere scelto fra le migliaia di scienziati che percorrevano le strade degli ottantuno membri della federazione. Era stato messo in una capsula e spedito in una stazione sperimentale talmente vicina al Sole che il minimo cedimento della protezione magnetica sarebbe bastato a permettere alla cieca violenza della corona stellare di vaporizzarla all'istante.
Dodici minuti.
«Sai – dice John da dietro il giornale – che il Consiglio di Sicurezza vuole mandare una forza di pace in Congo?.»
«Perché?»
«L'Unione Europea vuole annettersi un po' di Subsahara. I nostri sono d'accordo, gli Asiatici no.»
«E quindi?»
«E quindi vogliono invadere il Congo con la bandiera delle Nazioni Unite, farci un protettorato e mettere qualche europeo a controllarlo. Tutti avranno la loro fetta e saranno contenti.»
«Sei il solito esagerato.»
Undici minuti.
Non ricorda in quale punto della sua inarrestabile ascesa aveva intuito che c'era qualcosa di falso, di corrotto, un’indefinita pecca fatale in un mondo in apparenza giusto, come... come un violino sottilmente scordato in un pieno d'orchestra. Ancora meno ricorda il momento in cui aveva capito (deciso?) che qualcosa andava fatto.
Un allarme inizia a suonare e lui lo azzittisce con un tocco distratto dell'anulare.
Dieci minuti.
Edwin aveva creduto che se il progetto Sole in Terra avesse avuto successo, il braccio di ferro per il petrolio, per l'uranio, per il gas sarebbe cessato una volta per tutte. Già vi erano tracce di inquietudine nella società e la continua tensione accumulata in decenni di quella sorta di guerra fredda a tre, di quel balletto sull'asse di equilibrio della geopolitica, cominciava a far fischiare le valvole. Sarebbe stato l'inizio della fine della falsa libertà con cui tutti erano stati drogati.
Nove minuti.
«Sì, sarà davvero l'inizio della fine» aveva commentato John.
«Cosa vorresti dire, scusa?»
«Quante centrali costruiranno sul pianeta?»
«Ne servirà solo una.»
«Dove la costruiranno?»
«Non lo so, credo in Antartide.»
«E chi la controllerà?»
«Le Nazioni Unite, ovviamente.»
Otto minuti.
John aveva ragione. Sole in Terra non avrebbe liberato l’umanità dalle menzogne. Con il monopolio dell’energia, le Nazioni Unite avrebbero potuto controllare il mondo per sempre, nel migliore dei casi. Nel peggiore, l'avrebbero distrutto. Lui aveva preso l'unica decisione possibile, anche se l'idea di fare questo a John gli era insopportabile.
Sette minuti.
«Torna presto.»
«Vado solo ad accendere una stazione spaziale.»
«Stupido. Baciami.»
'Perdonami.'
Sei minuti.
«Accidenti little boy, ci sai fare con queste cose...!»
«Non è così difficile, è solo un po' complesso... batjuška.»
«Tu sei Edwin, vero?»
«Sì. Anatolij Andreevič? Tanto piacere.»
«Tutto mio. Pronto per il Sole?»
«Ho già messo in borsa la crema.»
Cinque minuti.
Avevano riso stupidamente e nonostante la differenza di età erano diventati grandi amici. Michelle si era aggiunta al gruppo poco dopo.
Ora due di loro sono riversi al suolo e il terzo porta a compimento il più grande atto di sabotaggio della storia dell'umanità.
Quattro minuti.
L'ultimo dei firewall cade, impotente.
Il ragazzo di Little Rock richiama lo script che ha contrabbandato all'interno del codice dei programmi di sicurezza. Un solo tocco sul monitor avrebbe spento tutto quanto e spazzato via i resti.
Edwin si alza e si ferma ad osservare la loro creatura.
Tre minuti.
La stella palpita oltre il vetro oscurato che lascia passare solo i colori più in alto nello spettro del visibile. Indaco e viola. È bellissima, come un fiore che sboccia trionfante dalle crepe del cemento di una città industriale, e non ha un nome.
«Io sono Edwin – le dice soltanto, immaginando che la stella sia viva e possa sentirlo – tu sarai Eos.»
Due minuti.
Edwin si sente improvvisamente schiacciato, incerto. Immagina di non premere mai quel bottone. L'impulso di sicurezza che si sta precipitando verso di lui attraverso milioni di chilometri di gelido vuoto siderale sarebbe arrivato al suo obiettivo, avrebbe preso il controllo e cancellato ogni possibilità di portare a termine il suo piano.
L'avrebbero scoperto, incarcerato, giustiziato.
Poi avrebbero preso Eos. L'umanità avrebbe continuato a vivere nell'inganno e lui sarebbe morto vergognandosi di essere nato.
Un minuto.
Non sta salvando il mondo. Non sta salvando nessuno. Sta solo prendendo tempo. La polvere è già al suo posto e lui può solo sperare che quel suo gesto dia una spinta alla mano che regge la torcia.
Edwin spegne gli elettromagneti.
In orbita bassa attorno al Sole la piccola stella, libera dai suoi carcerieri, esplode in una minuscola nova e per pochi istanti Helios ha una sorella.
Poi, il vento stellare ne disperde le spoglie.
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Barbs (venerdì, 23 maggio 2014 00:48)
ok hai ragione, ne valeva la pena. bello lo stile, il tempo scandito, i ricordi delle conversazioni. ma la trama non mi ha entusiasmato, perchè sono picky. ho preferito il #nero
Riccardo Cutroni (sabato, 31 maggio 2014 22:04)
La voce di Stefano per ora si conferma essere la più riconoscibile e autentica, cambia il genere ma si percepisce, nelle immagini create e nella scrittura, la stessa mano. E mi piace molto questo. Mi piace anche la struttura: il countdown che chiude il racconto è davvero molto efficace, dà profondità alla vicenda. Come nel racconto precedente, mi colpisce sempre l'uso preciso e ponderato delle parole, non superficiale. Se mi posso permettere c'è però una cosa che mi lascia perplesso: i riferimenti geopolitici. È chiaro, in un racconto così breve non si può ricostruire un mondo, ma non è per forza necessario! Accennando a dinamiche geopolitiche complesse, addirittura mondiali, si rischia di essere a mio parere un po' troppo semplicistici, un 'effetto risiko' che secondo me rovina l'atmosfera del racconto. Ho sentito un po' di ingenuità nel citare l'Europa, il Congo e istituzioni che rischiano di rimanere lì appese, dei nomi e niente di più. Non serviva, funzionava tutto senza quei riferimenti. Comunque, ti va riconosciuto un certo ottimismo: l'Unione Europea che sopravvive fino al 2195, questa è pura fantascienza!
Il Mala (giovedì, 12 giugno 2014 00:48)
Ottimo sensazioni nello spazio, agitazione e fretta nella dilatazione dello spazio.
Mi una scrittura che mi ha accompagnato bene alla fine del racconto.
Concordo col Riccardo la Geopolitica poteva rimanere ancora più sullo sfondo.
Stefano (sabato, 14 giugno 2014 21:27)
Volevo cercare di rendere a pennellate grossolane il contesto nel quale l'azione di Edwin assume un senso, perché temevo che altrimenti il racconto sarebbe diventato la relazione un po' letteraria di un sacrificio senza storia.
Ammetto che rileggendolo mi rendo conto di aver peccato di didascalia in alcuni punti, specialmente dove parlo del Congo. Cercherò di estirpare questa tendenza nei racconti futuri perché in effetti dà fastidio anche a me.
Grazie a tutti dei commenti!