La consapevolezza che il momento della cena era giunto al termine li colse impreparati. Si fissarono, per un istante, indecisi su cosa fare, avvolti da un sentimento d’attesa, un silenzio improvviso.
Qualcuno inghiottì, posando le forchette senza far rumore. Erika si chiese perché, quando erano soli in casa, la vita non sembrasse divisa in momenti come quello: pre-qualcosa o post-qualcos’altro. Sommati, pensò, devono essere anni di vita. Distolse lo sguardo e si alzò, decisa a non lasciarsi sopraffare da quel piccolo limbo, radunando le energie di tutta la famiglia attorno all'occupazione pratica e immediata che è lo sparecchiare una tavola. Si passarono forchette e coltelli con gesti distratti, piatti e Tupperware, vagamente coscienti di dover decidere un’attività specifica per il dopo-cena.
Fare il caffè o guardare un film?
Giocare a monopoli o fare zapping?
Sapeva che alla fine avrebbero scelto il film, lo sapeva lei e lo sapevano loro, immersi com’erano in uno stato di confusione ebete. Dalla cucina guardò in salotto: il piccolo Tommy e il nonno vagavano per la stanza, Betty (la madre ottantenne di Erika) raccoglieva oggetti e li posava, prese il telecomando poi cambiò idea. Si alzava e si sedeva, guardandosi attorno, persa in un labirinto di propositi svogliati. Erika ordinò i piatti nel cestello.
Si rese conto di aver lasciato il bambino solo col nonno. Suo marito andò a buttare la spazzatura.
«Ho visto un documentario sulla guerra, a scuola.» disse Tommy al nonno.
«E quindi? Cosa vuoi insinuare? Perché mi dici questo? Cosa ti ha detto tua madre?». Nonno Bob si lasciò cadere sulla poltrona. Tommy lo fissava, seduto sul tappeto come un indiano. «Vuoi sapere com’era la guerra?» un rantolo interno lo scosse, muco che cambiava posizione, denti ingialliti, qualcosa che aveva gli elementi di un sorriso. «Vietnam. 1966. Io, un fucile, una tuta mimetica, un pacchetto a metà di Philip Morris. Non immaginare grandi schieramenti. Non immaginare stormi di elicotteri neri che avanzano in formazione con Wagner di sottofondo. Non pensarci neanche, al cameratismo, al gruppo. Al concetto di plotoni che scendono dagli aerei e si posizionano su mappe strategiche. Quella è roba da telecamere in sorvolo panoramico. Immagina un uomo. Io, un fucile, una tuta mimetica sudata, le Philip Morris. Tu oggi sai già tutto di quelle foreste, ma io non ne sapevo niente. Nato e cresciuto a New York. Quando vai così lontano lo senti nelle ossa: il mondo è diverso quando cambi emisfero, qualcosa nel modo in cui il vento muove le cose, nella gradazione d'azzurro del cielo.»
«Racconta nonno, racconta!» disse Tommy, gli occhi pieni di fascino.
«Posso raccontarti la mia storia: mi terrorizzava l’erba alta. A New York avevo visto le foreste, in televisione, ma nessuno mi aveva detto delle cazzo di praterie.»
Erika sentì solo la parola ‘cazzo’ e urlò qualcosa dalla cucina.
«Vietnam orientale. Ricordo campi sterminati, un orizzonte inghiottito da miliardi di fili d’erba verde acceso, ondeggianti; un’unica creatura organica che sussurra al vento di cose nascoste tra le foglie. Denti a sciabola e artigli.»
«La maestra dice che noi abbiamo combattuto per la libertà.»
«Non so cosa voglia dire ‘combattere’. Io sparavo e mi accucciavo. Strisciavo, a volte. Io, non noi. Non c’è ‘noi’ nell’erba alta: lo spazio è saturo di entità con istinti e finalità, tattiche di branco, simmetrie dirette a spezzarti le gambe e trascinarti ancora vivo verso il bosco.»
«Hai avuto paura?»
«Mettila così: non faccio alcuna fatica a capire perché i miei antenati avessero voluto mettersi su due piedi il prima possibile. Poter vedere oltre, riconoscere schemi di movimento nell’erba alta. Intuizione. Immaginazione. Paure che urlano a riflessi direttamente connessi ai muscoli delle gambe, della schiena, della corsa sfrenata.»
Il vecchio sbavava, rosso in viso, le mani artigliate ai braccioli, il corpo leggermente in avanti, come fosse pronto a scattare. Tommy non sapeva che dire.
Erika schizzò fuori dalla cucina, evitò il tavolo, il divano, il tavolino, circondò Tommy con le braccia e lo sollevò di peso mentre il piccolo cominciava a singhiozzare, indeciso se piangere.
«Papà! Ma ti pare il modo? Ha otto anni!»
«Mi ha chiesto la storia, Erika. La storia vera.»
«Ce l’hai ancora con me, vero?»
«Chi, io? Per avere una figlia che di lavoro scrive articoli accademici, pubblica libri su eventi che non ha vissuto?»
Erika si strinse Tommy al petto, accarezzandogli la testa, il piccolo improvvisamente calmo. La guardò con una curiosità morbosa, uno sguardo che diceva ‘rispondi mamma, dai, cos’hai da dire adesso, eh? eh?’
«Non sei cambiato papà. Vieni qui per il fine settimana e ti... sì, io faccio la storica. E allora?»
«Crei storie.»
«Cerco le storie. Unisco i punti. Do senso agli eventi. Causa ed effetto. Nient’altro.»
«Tu crei favole, storielle, narrazioni con svolgimenti e conclusioni. Dimmi, Erika, per chi sono, veramente, i libri di storia, eh?»
«Non so a cosa ti riferisci.»
«Per i bambini, ecco per chi. Sei-diciotto. Questo è il tuo vero target. Piccoli futuri adulti chiusi in edifici di cemento, ad ascoltare una storia preparata da accademici in pensione. Personaggi principali e secondari, azione, una trama con alti e bassi. Voi siete un gruppo di adulti che gioca con storie per bambini. Io la storia l’ho vissuta. La storia è il mio terrore dell’erba alta. Il sangue che ho fatto uscire da fori in corpi di esseri umani.»
Erika si chiese se suo padre fosse impazzito, si chiese che tipo di vita facesse con la mamma, giù in Texas. Si chiese perché non sapeva queste cose.
«La Storia è tutto papà. E poi non è il momento...»
«Fori ti dico! Tagli. Lacerazioni multiple.»
«Atti di eroismo. Ragazzi-soldato» disse lei.
«Bombe a mano, bombe carta», Bob alzò la voce.
«Equilibri di potere, geostrategici. Piccoli tumori, le malattie, gli amori, le ossessioni, i colpi di tosse di dittatori internazionali. La Storia è tutto.» disse Erika.
«Fuoco aereo, fuoco amico. Napalm. Fosforo bianco.»
«Stai blaterando. Cos’hai bevuto? Mamma, tu non dici niente?»
Babette giaceva semiaddormentata sul divano. Di fianco a lei, col telecomando in mano, il marito di Erika guardava la TV.
«La storia è tutto, papà. Carezze, malattie, coincidenze e destini. Gli ideali.»
«Dipende cosa vuoi raccontare.»
«Esatto. Più o meno.»
«E tu racconti dei trattati, dei presidenti. Pura merda.» Il vecchio mimò una vocina affettata. «Il nazional-socialismo fu un movimento politico e sociale sorto durante bla bla’; ‘La guerra dei cent’anni fu, in proporzione, il massacro peggiore della bla bla’ ‘La bomba di Hiroshima pose fine al conflitto tra l’asse ics e l’asse ipsilon’. Cos’è questa roba? Che parole sono? Io ho vissuto milioni di secondi in un luogo fisico della terra. Non ‘fui’ nulla, non ‘posi fine’ a nulla, non avanzai confini su mappe. Avanzai metri. Percorsi chilometri. Uccisi uomini, donne e bambini. Persi un calzino in mezzo alla foresta e questo, in un certo senso, mi salvò la vita. E tu sei qui con la tua bella casa e il tuo bel maritino e vivi scrivendo metafore. ‘Primavera araba’, me lo spieghi che cazzo vuol dire? La storia che fai tu serve solo ai bambini.»
Erika decise di muoversi. Uscì dalla stanza, percorse la casa fino ad arrivare alla cameretta del bambino. Adagiò Tommy sul letto come se fosse un oggetto delicato, ma lui era completamente sveglio.
«Ora di andare a nanna tesoro. Il nonno ha bevuto troppo vino. È vecchio. Non ascoltarlo.»
«Ma è presto!» si lamentò, dubbioso: «Abbiamo appena cenato. Adesso dovremmo guardare un film. O giocare col nonno e la nonna. Tu di solito fai il caffè.»
«Sei troppo sveglio per la tua età. Cosa ti dà da mangiare la mamma?»
«Almeno, raccontami una storia, prima.» disse Tommy, gli occhi sgranati.
«Certo!» sorrise Erika, felice di sentire la sua voce, la sua terminologia da bambino la faceva sentire bene. Cameretta-nanna. Favola-storiella.
Famigliola.
«La tua mamma conosce tutte le Storie del mondo».
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Il Mala (giovedì, 03 luglio 2014 11:51)
Bella la storia, lo stile risulta molto meglio che su nero però compi lo stesso errore di Riccardo la storia è il pretesto e non il genere, potevi soffermarti più sull'esperienza del nonno che sul battibecco generazionale.
Rick (giovedì, 03 luglio 2014 12:36)
Rispondo qui, ma la riflessione vale anche per osservazioni del genere emerse altrove. Fucina narrante non declina generi letterari. Propone esercizi di stile, sì, ma in quanto interpretazione di un genere in senso lato. Originalità e qualità vengono prima dell'aderenza ai generi. La priorità va all'idea e al suo sviluppo, il punto di partenza non è la domanda: 'Cosa posso fare che sia storico/nero/fantascientifico?' Bensì: 'Cosa mi piacerebbe raccontare, come posso fare un buon racconto?'
D'altronde il buon racconto di genere, prendiamo ancora ad esempio lo 'storico', non è dato dal gradiente di 'storicità' dei suoi contenuti, ma dalla capacità di intepretare, ossia trasformare, ritrasmettere, inevitabilmente 'tradire' il genere.
Il Mala (venerdì, 04 luglio 2014 17:15)
Devo dire che risulta come giustificazione il fatto di tradire il genere, l'esercizio di stile deve aderire in maniera oggettiva al racconto, se no è inutile dare uno stile. Nello storico i racconti sono tutti belli ma Jacopo e Stefano hanno fatto un racconto storico come suggerisce lo stile mentre Riccardo e Ruben, per una questione di mera importanza, l'hanno usato come pretesto. Il litigio generazionale Padre e figlia poteva essere reso a spezzoni di storia e non a mero litigio,mentre per morte bianca il concentrare l'attenzione su un unico episodio avrebbe reso meglio lo stile.
Riccardo Cutroni (sabato, 05 luglio 2014 23:06)
La prima volta che ho letto il racconto devo dire che mi sembrava piuttosto buono; poi, a una seconda lettura, mi ha convinto meno. Prima le cose positive. Ho apprezzato particolarmente la parte del racconto dell'esperienza in Vietnam del nonno: il procedere più per immagini, le ripetizioni usate con cura, il tono credibile del racconto. Poi anche l'idea di fondo che va oltre il racconto di genere, un po' come nel racconto fantascientifico, non era affatto brutta. Convincente e incisiva è anche la disamina del nonno dei libri di storia e del linguaggio storiografico, che in qualche modo stride con la sua esperienza diretta molto più cruda (il richiamo al terrore dell'erba alta che si ricollega a prima, bene!). Anche la parte conclusiva non è male, specie la battuta finale del nonno. Ciò che trovo poco riuscita è la rigida opposizione tra la madre e il nonno: il rischio è costruire un racconto a tesi, il tutto assume un tono cattedratico eccessivo. Francamente trovo peraltro poco credibile, se non ingenuo, il modo con cui è stata resa la posizione della madre storica, addirittura un'accademica: uno storico non è quello che hai descritto tu, uno storico è attrezzato intellettualmente a interrogarsi su quell'opposizione tra storia e storiografia, tra storia minima e storia dei grandi avvenimenti. La trovo una visione semplicistica e, come tutte le semplificazioni, fragile. Insomma, quando il discorso tra i due personaggi si fa teorico, non funziona. Per lo stesso motivo io trovo davvero inappropriato il titolo del racconto; prima di tutto non ha senso la storia con la S maiuscola, la parola storia ha già un suo significato forte, poi la scelta del titolo non fa che rafforzare la mia impressione di un testo dal tono perentorio. Poi io non capisco per quale motivo si siano caricati i primi paragrafi di espressioni così eccessive: va bene dare il senso di attesa e indecisione, ma qui è troppo. I personaggi sono 'impreparati', 'indecisi su cosa fare', 'avvolti da un sentimento d'attesa', cala un 'silenzio improvviso', sono un un 'piccolo limbo', sono 'distratti' nello sparecchiare e sono 'vagamente coscienti di decidere un'attività specifica … '. Qua non è questione di gusto mio personale; bisogna fare delle scelte, avere un po' di controllo su ciò che alla fine entra nel testo.
Vera (giovedì, 17 luglio 2014 10:33)
Rick...che mazzata. Io l'ho trovato solo un po' scollegato e la mamma é un pò troppo ingenua...ma credo che in questo caso gia l'autore stesso non fosse molto convinto