Morte Bianca

Riccardo Tabilio

Qualche anno fa ebbi occasione di passare del tempo in Finlandia. Vivevo in un palazzone di cemento a Pasila, il quartiere nord di Helsinki – uffici e grandi strade vuote – il cui unico vantaggio consisteva nell’avere la stazione dei treni sotto casa, cosa che ci permetteva di andarcene in centro a qualunque ora. La compagnia dei miei amici era internazionale: c’erano solo stranieri al numero cinque di Junailijankuja. Si fa tanto presto amicizia tra «emigranti», quanto è difficile entrare in confidenza con chi è del posto, specie con gli schivi finlandesi. Tuttavia, nel desiderio di sentirmi un poco finlandese anch’io, volli farmi amicizie locali e imparai le basi della lingua.

Così, un giorno d’estate, in compagnia dell’amico Pekka, studente di lettere a Helsinki, mi trovai su una macchina diretta a Ruokolahti, in Carelia meridionale, verso la Russia, suo paese d’origine. Lì viveva Simo Häyhä, veterano della Guerra d’Inverno e tiratore leggendario. Durante il conflitto con i russi, Häyhä, in solitaria, armato del suo fucile di precisione, abbatté oltre cinquecento soldati dell’Armata Rossa – forse settecento – guadagnandosi fama tra i due eserciti nemici, che lo battezzarono Morte Bianca.

Quando Pekka mi aveva detto che conosceva il vecchio Simo Häyhä, avendo frequentato casa sua (la zia del mio amico gli faceva qualche lavoro in casa), e mi aveva raccontato chi fosse, non mi ero lasciato scappare l’occasione, appassionato com’ero di vicende storiche, e gli avevo chiesto se il signor Häyhä avesse avuto piacere a ricevere una visita da parte mia, in sua compagnia.

Pekka parlò con la zia, che concordò una visita con Häyhä, per la settimana successiva. Non c’erano problemi: il giorno in cui saremmo andati da lui, ci disse la zia di Pekka, il signor Häyhä doveva ricevere anche la visita di un gruppo di americani collezionisti di armi storiche. E partimmo.

Ruokolahti era un villaggio minuscolo, appuntato come una spilla su un infinito tessuto verde e azzurro fatto di laghi e di foreste. Trovammo gli americani in centro, davanti alla chiesa, ci presentammo e ci offrimmo di fare strada verso la casa di Simo Häyhä. Il loro van ci venne dietro lungo una strada tutta curve e dossi: la bandierina stelle e strisce che avevano piazzato sul cruscotto spuntava di tanto in tanto nel retrovisore.

La casa di Morte Bianca era piccola e spartana, tutta di legno. Il vecchio Simo Häyhä ci accolse e ci fece accomodare intorno a un tavolo, sotto la veranda antistante la casa. Basso di statura e di pelle bruna – caratteristiche non così rare in Finlandia, mi rendevo conto, perché presenti in ceppi umani antichi di quella terra – Häyhä portava in modo esemplare la sua età; le maniche rimboccate del maglione da lavoro rivelavano braccia muscolose e forti. Il volto era gentile, ma riportava l’orribile marchio dell’ultimo giorno di guerra, quando, nel mezzo della battaglia, un proiettile nemico colpì Morte Bianca in pieno volto, devastandogli la mandibola.

Gli americani, che appartenevano al Winter War Weapons Club, avevano messo due o tre pacchi da sei di lattine di birra sul tavolo e le offrivano a tutti i presenti. Formavano un massiccio assembramento intorno al vecchio Häyhä e alla loro interprete.

«È un onore per noi, essere qui con un patriota, un eroe e un combattente straordinario come lei, signor Häyhä», diceva il presidente del club, non ricordo il nome. L’interprete traduceva. Gli ospiti dissero a Morte Bianca che ognuno di loro possedeva un fucile Mosin Nagant del conflitto russo-finlandese, chiedevano informazioni sui suoi armamenti di allora, sulle tecniche di mimetizzazione. Chiedevano cosa si sente ad ammazzare un uomo a freddo, cosa ne pensasse del suo soprannome. Morte Bianca interloquiva con l’interprete e rispondeva alle domande. Pekka ed io non riuscivamo a inserirci nel discorso: gli americani avevano la scena tutta per loro. Il mio amico beveva birra e ascoltava. Ma un senso di disagio per Häyhä e di repulsione per i suoi ospiti crescevano dentro di me, per la candida, ottusa, bovina sicurezza con cui maneggiavano la Storia e le sua ambiguità.

Venne l’ora della partenza: gli americani regalarono a Häyhä un gagliardetto con il loro stemma affollato di piccoli fucili e di vu doppie e ci salutarono. Il rumore del van scompariva dietro la curva, mentre Pekka aiutava il vecchio Häyhä a sbarazzare il tavolo delle lattine vuote.

Inaspettatamente Simo Häyhä cercò il mio sguardo.

«E tu cosa vuoi sapere?» mi chiese in finlandese. Mi puntava gli occhi addosso, gelidi.

Replicai, chissà perché: «Vorrebbe mostrarmi i suoi cani?»

Attese ancora un momento, prima di scostare la lama del suo sguardo dal mio e concedermi una specie di sorriso. Dopo la guerra e la dolorosa convalescenza il veterano era diventato addestratore di cani. Simo Häyhä ci condusse sul retro della casa: addossata alla legnaia c’era una grande gabbia coperta di una tettoia. Dentro c’erano quattro bellissimi husky. Appena videro il padrone cominciarono ad abbaiare eccitati. Häyhä li liberò e, nostro malgrado, anche Pekka ed io fummo protagonisti delle loro effusioni. Bestie bellissime e fiere. Il vecchio Häyhä me ne descrisse razza e carattere: forti, leali, ma orgogliosi. Tenaci. Resistenti alla fatica: cani da slitta potenti e affidabili. Poi, di punto in bianco, cambiò discorso: «Pystykorva, così chiamavamo i fucili in dotazione. Significa ‘spitz’, il nome dell’antica razza da cui discendono questi cani. Per via di un elemento dell’ottica che ricorda delle orecchie di cane. Pystykorva, appunto. Erano una variante del Mosin Nagant M28/30 russo. Io personalmente non usavo l’ottica telescopica. Inutile e pericolosa: devi tenere la testa alta per prendere la mira e c’è il rischio di essere visti. Nella mia situazione – sempre da solo, a ore di cammino dagli accampamenti – era la cosa peggiore. E poi, con trenta gradi sottozero, le lenti si appannavano in continuazione.»

Non dissi niente e il discorso finì lì. Il giorno volgeva al termine. Il sole ritagliava gli ultimi chiaroscuri del profilo degli abeti sull’erba della radura. Simo Häyhä ci invitò a restare a cena. La zia di Pekka gli aveva preparato una quantità di piirakka, i tipici tortini di farina di segale e riso. A cena e dopo cena si continuò a parlare di cani e di addestramento. Häyhä aveva tirato fuori un paio di fucili da caccia per mostrarmeli. Sotto la veranda era già calata la penombra, la strana notte estiva di Finlandia.

«Certo che dà soddisfazione quando colpisci» disse il vecchio Häyhä all’improvviso guardando l’orizzonte attraverso il mirino di uno dei suoi fucili: «Gli ultimi giorni sul fiume Kollaa (Morte Bianca indicò un punto con la canna: mi parve di sentirlo scorrere, il fiume, gelido e vicinissimo), li passai con l’occhio sinistro chiuso. Miravo con il destro e puntavo il fucile. Poi passavo al bersaglio successivo. Ogni cinque colpi, un caricatore. Il tutto era un movimento solo, preciso ed efficace. Ho ammazzato un mucchio di gente.»

I cani cominciarono improvvisamente ad abbaiare. Alzammo lo sguardo. Di là dal laghetto c’era un’ombra bruna, muta come un’apparizione: era un alce. L’animale levò la testa coronata verso di noi, in osservazione.

Con fermezza Simo Häyhä lanciò un comando e i cani fecero immediatamente silenzio. Poi fece qualche passo verso la riva e si accovacciò sull’acqua, in attesa: aveva il fucile puntato verso la sponda opposta.

L’alce si mosse. Fece qualche passo sulla riva e noi avemmo un'altra sorpresa. L’ombra piccola di un cucciolo gli trotterellava di fianco. Calarono gli zoccoli nell’acqua: erano venuti per bere.

Per un tempo lunghissimo rimanemmo paralizzati dalla visione, fino a che le bestie, placata la sete, si dileguarono.

Simo Häyhä infine si alzò e si voltò. Il suo volto storto mi parve quello di un uomo vecchissimo, stanco. Teneva il fucile tra le mani.

Ho fatto solo quello che mi hanno chiesto, al meglio che ho potuto», disse infine, con un filo di voce, mentre le ultime increspature d’acqua, sparendo, restituivano la sua immagine riflessa al fronte scuro del bosco: «Quello che mi hanno chiesto, al meglio che ho potuto.»

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Commenti: 8
  • #1

    Il Mala (giovedì, 26 giugno 2014 01:49)

    Il racconto è molto bello ma la storia è il pretesto del racconto e non il genere! Comunque scritto bene. Forse per renderlo storico mi sarei soffermato di più su un singolo episodio del signor morte bianca!

  • #2

    Alice (giovedì, 26 giugno 2014 11:18)

    Grande Riccardo! il racconto é bellissimo.

  • #3

    Riccardo Cutroni (sabato, 05 luglio 2014 21:16)

    Racconto interessante! Rispetto ai tuoi racconti precedenti trovo con piacere che ti sei meno legato al genere prefissato. Non ha nessun tratto da esercizio di stile, è un vero racconto, che sia storico o meno non è affatto importante! Trovo che l'elemento più bello sia la 'svolta' di metà racconto, o meglio lo sviamento dal discorso sulla guerra all'allevamento dei cani. Mi piace perché con una semplice frase si dà un taglio totalmente diverso alla vicenda e ai rapporti tra i personaggi, molto bello quel 'chissà perché' che da un tocco di indefinito e inaspettato. I tuoi racconti sono sempre molto visivi, questo in particolare ha certi aspetti che mi ricordano un reportage, un documentario, questo non vuol dire che non sia un testo narrativo! Infatti ci sta il primo paragrafo che introduce il narratore e il fatto che questo descriva alcuni aspetti della Finlandia e del personaggio storico oggetto del racconto. Ho trovato anche ben fatto il finale: con la ripetizione di Simo si cerca un effetto per chiudere il racconto in modo efficace, ma allo stesso tempo non risulta troppo artificioso e sentenzioso. Qualche cosa che non mi convince c'è, sopratutto nella prima metà. Forse con un racconto più lungo si sarebbe potuto armonizzare meglio le parti: leggere di fila la presentazione del narratore, la storia di Morte Bianca, il viaggio e gli americani, tutto in poco spazio, risulta un po' macchinoso. Lancio una provocazione: far fuori l'amico Pekka, la zia di Pekka e i pirakka? Giusto per eliminare un passaggio macchinoso e una discreta dose di k!! ;-). Capisco la necessità di spiegare tante cose, ma ogni tanto ci sono troppe precisazioni e rischi che il lettore tiri di lungo per andare al sodo (soprattutto i primi capoversi, poi è ok). Ci vuole forse qualche cosa che invece faccia rallentare il lettore, qualche elemento più 'letterario' forse. Per il resto lo trovo un racconto valido. Io ti consiglierei di mantenere questo approccio più libero e diretto (senza stratagemmi metaletterari, strutture ad incastro, artifici vari) anche per i prossimi racconti!

  • #4

    fucinanarrante (mercoledì, 09 luglio 2014 23:44)

    Grazie Rick, mi sento davvero onorato dello spazio e della cura che ci dedichi nelle tue recensioni che sono scritte con attenzione e piacevoli da leggere ('una discreta dose di k' mi ha fatto molto ridere)! Ragionerò sulla mia visività, non mi ero mai pensato in questi termini. Guardando me stesso, posso dire che mi piace che sia un dettaglio a parlare - un dettaglio effettivamente molto materiale e visivo: la bandierina stelle e strisce vista nello specchietto retrovisore; Simo Häyhä che libera il tavolo delle lattine vuote; lo stemma degli americani affollato di piccoli fucili e di vu doppie. Sono dettagli che - lo spero - mi aiutano a connotare drammaticamente in modo sinteticco un personaggio, un'azione o una scena.
    Grazie di nuovo e continua a leggerci!

  • #5

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  • #6

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