Fuori sono i morti

Jacopo Colombo

Fuori erano i morti, loro erano i vivi.

Salvatore si ripeteva questo mentre, stremato dalla fame e dal sonno, stringeva sua figlia Rugiada attorno al fuoco. Fuori erano i morti. Quelli che vivevano una vita insulsa, a consumarsi lentamente dietro l'infelicità inseguendo cose, soldi. Se lo ripeteva mentre stringevano le boccette che avrebbero contenuto le loro anime. Era solo un simbolo, certo. Ma Carlo diceva che i simboli sono importanti.

Era un bell'uomo Carlo, aveva un’energia che Salvatore non aveva mai trovato in nessuno. E diceva quello che lui pensava da una vita, sulla libertà, sull'amore, sulla natura, sull'universo... gli avevano affidato i loro soldi, lui e altri provenienti da tutto il mondo e lui aveva comprato il paradiso che avevano sempre desiderato, un campo con una cascina in mezzo alle colline. Di giorno a coltivare la terra, la sera a cantare, a ballare, a fare l'amore, a condividere tutto.

Fuori erano i morti, loro erano i vivi.

Di colpo però la terra sembrò preda di una maledizione. I campi erano carichi di ortaggi, ma secondo Carlo il frutto delle loro fatiche non poteva bastare al loro sostentamento. Dovevano produrre di più, dovevano mangiare di meno, mettere da parte per i tempi bui. Fuori dalla comunità succedevano cose orribili, così diceva, la società egoista stava rapidamente collassando, e tutti i membri del loro piccolo gruppo lo ammiravano sempre di più per il coraggio dimostrato nell'avventurarsi in quel nuovo inferno a comprare i beni che loro non potevano produrre.

Salvatore soffiò la sua anima nella boccetta con tutta la sua fiducia, era solo un simbolo ma bisognava crederci, tremava mentre sedeva assieme agli altri in cerchio ascoltando le storie di Carlo. Rugiada aspettava, nei suoi occhi qualcosa di strano. Il padre la guardò con occhi severi, le sue dita si strinsero forte contro il polso di lei. Alla fine anche Rugiada soffiò l'anima nella boccetta.

Non potevano non farlo. I rituali sono importanti, come i simboli. Così almeno diceva Carlo. Da quando si erano resi conto che la società era allo sfacelo temevano la morte. Erano terrorizzati che da un momento all'altro una centrale nucleare sarebbe esplosa, un nuovo virus avrebbe spazzato via l'umanità, i computer si sarebbero spenti facendo scivolare il mondo nel caos.

Anche allora Carlo li aveva guidati. Aveva insegnato loro che forse c'era una speranza, ma che bisognava credere, credere fortemente, credere senza riserve. Solo chi avesse creduto sarebbe scampato alla morte eterna. Solo chi avrebbe creduto sarebbe tornato.

I digiuni li avrebbero resi insensibili ai bisogni. Le veglie li avrebbero preparati a sfuggire al sonno dal quale non ci si sveglia. Sradicarono le verdure e piantarono cose nuove, piante esotiche e splendide, dalle quali estrarre succhi capaci di espandere la mente e di portare la coscienza a forme purissime di pensiero. Una parte di questi formidabili elisir era per la comunità, una parte Carlo la portava all'esterno, per tentare di aiutare i morti là fuori, diceva.

La loro guida aveva portato altre persone nella comunità, persone diverse, grandi, forti e dallo sguardo cattivo. Ma non potevano essere davvero cattivi malgrado tutto perché il loro compito era quello di spingerli ad andare avanti, di estirpare il dubbio e il male che era in loro. E per ogni bastonata che ricevevano, per ogni calcio, per ogni notte passata in cantina senza cibo né acqua, i membri della comunità erano grati. Perché sapevano di non poter aspirare ad altro, perché sapevano che quella era la via della salvezza.

Lentamente essi cominciarono a cambiare e tutto sembrava girare attorno a loro come in un sogno. Le giornate si fecero sorde e sfocate, i pensieri pesanti e amorfi. In particolare Rugiada sembrava sentire quell'atmosfera da fine dei tempi.

I rapporti col padre divennero tesi, lei un giorno lo affrontò, disse che era stanca di quella situazione, che le mancavano i suoi amici, la sua scuola, la sua vita, urlava, piangeva, lo pregava, lo minacciava. Lui l'aiutò come poté, come sapeva. Si impegnò molto ad estirpare il dubbio e il male da lei.

Dopo la sera delle boccette Rugiada cambiò ancora. Mangiava meno degli altri, i suoi occhi erano spenti, aveva smesso completamente di parlare. Solo una volta nelle ultime settimane Salvatore aveva visto rifiorire una sorta di coscienza nel suo sguardo.

Una delle donne che era con loro si era tagliata un dito per sbaglio mentre lavorava nei campi. Avevano cauterizzato la ferita come meglio potevano, ma del dito nessuna traccia. Qualche minuto dopo, mentre era nella boscaglia a fare legna, Salvatore aveva visto una figura accovacciata dietro una siepe. Era Rugiada. Stava masticando qualcosa e una scia rossa le colava lungo il mento. Nei suoi occhi per un momento Salvatore rivide la ragazzina che era sua figlia. Fu solo un momento, poi più nulla e mentre tornava alla cascina non sapeva se aveva sognato oppure no.

Poi, nel mezzo di una notte, un fruscio svegliò Salvatore. Nel buio completo della stanza si sentiva una presenza. Un altro fruscio dal letto vicino, Rugiada si stava alzando e lui ne era orgoglioso. Era già la terza volta quella settimana che Carlo la mandava a chiamare. Si addormentò col cuore colmo di gratitudine e felicità

Quando sorse il sole lei era già nel suo letto. Salvatore si alzò per andare nei campi, nei riflessi delle finestre la sua immagine sembrava uno scheletro per la magrezza, i suoi movimenti sonnambolici. Eppure avrebbe affrontato una nuova giornata.

Fuori erano i morti, loro erano i vivi.

Un rumore però lo distrasse. Un rumore che veniva dal letto di Rugiada. Si fermò ad ascoltare e riconobbe un pianto smorzato, che cercava di nascondersi. Solo allora si rese conto che nella proprietà c'era un silenzio assoluto, come se non ci fosse nessuno. E solo allora realizzò che le lenzuola erano imbrattate di sangue e sul pavimento c'erano impronte rapprese. Partivano dal corridoio e arrivavano al letto di sua figlia.

Senza sapere esattamente cosa stava facendo Salvatore sollevò le coperte, La sua bambina stringeva con mani rosse la boccetta di vetro con sopra il suo nome, aperta vicino alla bocca macchiata di sangue.

«Non funziona papà... non funziona... ho ancora... fame!»

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Commenti: 3
  • #1

    Vera (mercoledì, 30 luglio 2014 12:07)

    L'atmosfera da comunità è a tratti inquetante e mi ritrovo a mettermi nei panni di quella povera ragazza...ma <RUGIADA???? che nome è? Capisco che forse le scelte dei nomi hanno un significato intrinseco ma non sono davvero il tuo forte.
    Il racconto è fluido ma come in quello di Stefano c'è quasi troppa descrizione e il colpo di scena finae si esaurisce troppo presto.
    Trovo i vostri due racconti in questo punto somiglianti...anche se nel suo ho apprezzato la poesia amazzonica e il romanticismo, mentre del tuo ho apprezzato l'innocenza della ragazza e l'incertezza del padre che riflette il sentimento della società odierna - il bisogno quasi disperato di credere per poter affrontare le faccende di ogni giorno, pur sospinti dal dubbio che ciò che credi non sia sufficiente o addirittura inutile. Questa riflessione mi affascina, ma resta tuttavia poco sviluppata..alla prossima!

  • #2

    Jacopo (lunedì, 04 agosto 2014 20:27)

    Ciao Vera, anzitutto grazie del commento!
    il nome... il nome riflette un mio difetto che aveva già messo in evidenza il mala: devo stare attento ai passaggi logici.
    nella mia testa il padre è un vecchio hippie e il nome "naturalistico" della figlia deriva da questo fatto. per me è chiarissimo. ho creato i passaggi per farlo capire anche al lettore? eh, probabilmente no... è una cosa fondamentale e sulla quale voglio lavorare.
    quanto allo sviluppo del tema, anche lì c'è da lavorare... grazie ancora delle dritte! ;)

  • #3

    Il Mala (martedì, 05 agosto 2014 19:01)

    A me il nome rugiada piace, da un senso di innocenza che sbatte contro la dura realtà del racconto. Mi piace il senso catastrofico dello sfruttato che è felice della sua condizione, il punto di vista di un cieco. Molto bello.