La prua della piccola imbarcazione fendeva in silenzio le acque torbide, le flebili onde appena in grado di raggiungere le radici delle gigantesche mangrovie che torreggiavano sugli acquitrini. Nonostante l’ansia e l’impazienza Anutu remava piano, consapevole che un vogare furioso avrebbe solo aumentato il pericolo di attirare le attenzioni indesiderate di qualche alligatore. Gli alberi bloccavano la maggior parte della luce e l’acqua, piena di fango, mangiava quella poca che filtrava attraverso il fogliame. I grovigli di radici albergavano solo oscurità.
La palude compensava in rumore ciò che mancava in luce: il ronzare degli insetti, il fruscio e le grida degli uccelli riempivano l’aria, e persino gli stagni erano smossi di tanto in tanto da qualche creatura che emergeva per un breve istante dalla superficie opaca. Eppure, nel caldo soffocante del giorno, quei vibranti segni di vita erano smorzati dall’aria satura, umida. Una cortina pesante aleggiava dovunque, ottundendo i sensi e dando un’impressione di sonnolenza, una delle letali illusioni della foresta di mangrovie. In qualsiasi momento, senza preavviso alcuno, l’acqua avrebbe potuto esplodere sotto la canoa, gettandolo in quella gora melmosa dove sarebbe stato smembrato dagli alligatori o stritolato dai serpenti. Una grossa libellula gli passò davanti, danzando su ali troppo rapide, per poi sparire di nuovo nel folto.
Un palo infisso nel fango del fondo indicò la via: piantato lì generazioni prima da chissà chi e ormai ridotto a un mozzicone putrefatto. Quale fosse stato il suo scopo originale, non importava più.
Anutu accostò la canoa, arenandola sulle rive di una delle isole di terra fradicia, in una stretta cala non ancora non reclamata dall’ingombrante vegetazione. Scese sulla riva, affondando i sandali di foglie nell’humus, raccolse dalla barca un pesante sacco e uno zaino di tela rossiccia di fabbricazione occidentale e si addentrò a piedi nella palude.
Camminò per oltre due ore. Il terreno traditore e le cedevoli radici delle piante su cui molte volte si era trovato costretto a passare avevano rallentato la sua marcia, ma anche se la palude aveva fatto del suo peggio per fermarlo, non vi era riuscita.
La casa sorgeva in quella che si poteva chiamare radura: poco più di un cerchio di terra di un alcune dozzine di metri da parte a parte, coperto da una vegetazione di canne alte e basse e cespugli spinosi duri come filo di ferro.
E pali e assi su una palafitta, grigi di muschio e marciume: la casa di Tía Manglar.
I suoi istinti gli gridarono di fuggire da quel luogo senza voltarsi, dare le spalle alla casa e dimenticarne l’esistenza, ma Anutu sapeva che era solo l’ultimo e disperato tentativo della sua mente razionale di salvargli la pelle. Fu d’improvviso consapevole del peso dello zaino e un brivido gli gelò la schiena nel calore fradicio del crepuscolo. Non c’era ritorno.
Si avvicinò alla casa, incerto su come comportarsi. Rallentò, sperando di essere visto da qualcuno all’interno, ma le finestre senza vetri restarono vuote e la porta non si aprì. Guardingo, salì la breve scaletta di legno, che cigolò e protestò sotto il suo peso. Pensò di gridare, chiamare Tía Manglar e dirle di farsi vedere, poi si limitò a bussare.
Nessuna risposta.
Bussò più forte e quando nuovamente non ottenne alcun risultato si voltò a guardare da quella posizione più elevata la radura, sperando di intravedere la figura di Tía Manglar fra le piante.
Nel sole calante della sera, la radura era vuota e solo un filo di vento muoveva le canne che lentamente ingrigivano nella luce morente, l’aria screziata dal vago odore dolciastro del legno mangiato dall’acqua e da insetti invisibili, dal tanfo impercettibile di strati di foglie trasparenti di putrefazione nascoste sotto strati di foglie ancora verdi. Come una ferita infetta sotto una benda, che aspetta solo di essere esposta per appestare il mondo con i suoi miasmi.
Nell’oscurità strisciante della notte che avanzava, gli alberi crescevano diventando i terrificanti giganti d’ombra che popolano i sogni e gli incubi degli uomini. Nel portico della casa vuota, feticci appesi di spine e viticci oscillavano morti nella brezza. Anutu rimase immobile a scrutare le macchie di oscurità che si spandevano tra le fronde, poi scese le scalette e si diresse dall’altra parte della radura, dove le canne erano più alte e il terreno molle di sabbia. Il buio caldo e umido gli si strinse addosso; le piante grigie arrivavano ben oltre la sua testa. La fine della radura giunse all’improvviso, là dove il groviglio di malerbe silenziose lasciava il posto a una pozza nera su cui vegliava una delle infinite mangrovie a cui apparteneva la palude, grande e immota contro il cielo indaco riflesso dall’acqua marcia.
Anutu appoggiò il sacco a terra e lo aprì, traendone un grosso fagotto bianco macchiato di scuro.
La mangrovia lo osservava immobile, indifferente.
Lentamente svolse la tela bianca, rivelandone il contenuto. Una fotografia. Una boccetta di vetro. Indumenti. Terra.
Anutu si tolse i sandali e si inoltrò timoroso nell’acqua salmastra, tenendo alto il fagotto aperto. Quando giunse al centro del vasto stagno era ormai immerso fino allo stomaco. I piedi gli affondavano nella melma organica del fondo e dalla superficie si alzava un odore appiccicoso e rivoltante. Lunghe alghe, invisibili sotto la superficie, gli sfioravano i polpacci e le coscie, dando l’impressione di camminare in un nido di serpenti.
«Non parlare» gli era stato detto «Lei sa», e lui tacque.
Appoggiò il fagotto sulla superficie opaca, e l’acqua lentamente se ne appropriò. Il sudario sporco di sangue e terra, macchie grigie nella sera ormai notte, si svolse con la lentezza di un sogno, abbandonando il suo contenuto prima di sparire a sua volta, in silenzio.
Il vento scosse le canne e le cime delle mangrovie, che frusciarono all’unisono. Anutu sentì il panico farglisi strada nel petto e rapidamente si tolse lo zaino dalle spalle. Lo aprì, sbirciandone il contenuto nella luce inesistente. Potè distinguere i contorni umani costretti nella tela sintetica, e la loro piccolezza, la loro acerbità, gli impedì di fuggire. Non c’era ritorno.
Abbandonò lo zaino e la terribile offerta alla palude ed essa li inghiottì.
Anutu credette di sentire un vago tremore sotto le piante dei piedi. Il fango si mosse, e qualcosa di viscido gli si strinse all’improvviso attorno ad un polpaccio. Lasciandosi sfuggire un grido inarticolato, Anutu si girò e cercò disperatamente di tornare verso la riva. La cosa lo trattenne e lui cadde, poi fu lasciato andare. Folle di terrore, uscì dallo stagno con una corsa disordinata, ansimando pesantemente, percorrendo gli ultimi metri trascinandosi su tutti e quattro gli arti nel fango. Uscito dall’acqua si volse a guardare di nuovo la pozza, cercando di scorgere qualcosa, ma tutto ciò che vide fu la chioma della mangrovia, solida tenebra contro il cielo notturno punteggiato di stelle. Nel panico che ancora lo attanagliava, gli parve che i rami e le foglie disegnassero due enormi occhi che lo osservavano, affamati e bestiali. Anutu gridò e corse.
Era ormai mattina quando, scalzo e insanguinato, ritrovò la barca. Esausto, fuori di sé, Anutu vi si sedette e si allontanò dalla riva.
Una pietra nera, rotonda, con un occhio inciso, rotolò sul fondo. Anutu capì, raggelò, poi qualcosa si ruppe nella sua mente e sentì solo una calda contentezza. Tía Manglar.
Era tarda sera quando giunse in prossimità del villaggio e a quell’ora nessuno era in giro per vederlo arrivare. Non aveva nè dormito nè mangiato e non sentiva fame o stanchezza, solo il desiderio bruciante che lo aveva completamente consumato. Si diresse quasi correndo verso la propria capanna.
All’interno giaceva un corpo, adagiato su un letto adorno di fiori e coperto da un sudario macchiato di sangue. Anutu accese rapidamente la miriade di candele che coprivano la mobilia fatiscente, poi estrasse la pietra dalla tasca e la appoggiò delicatamente sul petto femminile del cadavere. Attese qualche istante, ma nulla accadde; allora si sedette accanto al letto, infilando la mano sotto il sudario a trovare e stringere quella fredda e morta che trovò a giacere lungo il corpo e si addormentò.
Due ore dopo, fu svegliato da una stretta debole ma spasmodica e da una voce rauca ed incapace di articolare parole. Anutu sorrise.
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Vera (mercoledì, 30 luglio 2014 11:53)
Quasi poetico direi...ma un po' incompleto. Della serie...che vorrei leggere il seguito.
Il Mala (martedì, 05 agosto 2014 19:14)
Ottimo la descrizione dell'ambiente e delle sensazioni del protagonista. Bel racconto forse, cosa del tutto opinabile, serviva un po' più ritmo nella parte centrale.
Riccardo Cutroni (venerdì, 19 settembre 2014 20:09)
Io trovo che queste descrizioni ipertrofiche abbiano un loro perché, non mi dispiacciono. Secondo me restituiscono bene l'atmosfera tropicale e il senso di una rigogliosa vitalità della foresta; poi allo stesso tempo si collega sorprendentemente bene al tema zombie: quest'ambientazione chiusa e soffocante, piena di vita ma anche di morte e contaminazione. Si capisce che tutto questo non è casuale, non è solo descrizione fine a se stessa. L'unico problema è probabilmente la distribuzione di queste sezioni descrittive: sono così abbondanti all'inizio del racconto che quando si arriva al dunque, nel momento di massima tensione del racconto, si è già piuttosto abituati e si rischia di passare velocemente oltre. Forse andava valorizzata meglio la parte centrale e il momento del rito, o forse andava alleggerita la parte iniziale. Poi trovo molto riuscito il taglio del racconto, che potrebbe sembrare un po' sbilanciato, chiuso troppo in fretta; io devo dire che invece questa mi è sembrata un'ottima scelta! Si crea attesa per un evento che in realtà è solo un piccolo gesto, ma carico di significato. Ottimo. In generale mi piace la prospettiva data al tema zombie: ridotto all'osso, cioè il passaggio da morte a vita, senza scenari apocalittici o implicazioni politiche, un fatto intimo tra i due personaggi e un utilizzo del soprannaturale discreto ed essenziale (evidentemente non riesco a commentare un racconti di Stefano senza usare la parola essenziale ^^).
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