New York City, 1976
Gramercy Hotel
01:47 am
Lei stava ridendo sommessamente contro la sua spalla, il suono soffocato e pigro di una gola a mollo nel vino. Anche lui rideva, cercando di tenere entrambi in piedi sul tappeto alto tre dita del corridoio. In mano aveva una chiave (lei invece, una pochette e una bottiglia) e stava confusamente cercando di ricordare come funzionasse una serratura. Dopo un minuto, lei si raddrizzò e con tono falsamente serio e la voce tremolante gli disse «Dammi, qui, che tu non... non sei capace... tu non...» e poi scoppiò di nuovo in risolini, togliendogli la chiave di mano e armeggiando a sua volta. Lui le rispose qualcosa di incomprensibile e la guardò trafficare; o meglio, guardò il suo sedere. Finalmente, la maledetta porta li fece entrare nella stanza.
La registrarono a malapena: dodicesimo piano, pavimento chiaro, copriletto marrone, immacolato.
«Ancora per poco» pensò lui, poi si accorse di averlo detto ad alta voce, ma tanto lei non stava nemmeno ascoltando. La sua giacca era già a terra e lei lo trascinò verso il materasso per la cravatta.
Al bordo del letto la afferrò per le spalle e la baciò ferocemente, abbassando le mani a palparle il culo. Lei rispose strusciandoglisi addosso e poco dopo il suo abito si afflosciò in un groviglio informe attorno ai suoi piedi, lasciandola seminuda, pallida e liscia. La pochette atterrò con un sordo plof sullo scrittoio sotto la finestra. La camicia bianca di lui andò presto a fare compagnia all’abito nero.
Lei gli fece fare mezzo giro e lo spinse di schiena sul letto. Stordito dall’alcool, appoggiato sui gomiti, la guardò arrampicarglisi addosso come una gatta: la tensione sotto la cintura era quasi insopportabile.
Le fece tenere addosso il filo di perle e l’anello pendant perché lo eccitavano simili ornamenti sulle proprie donne, anche e soprattutto a letto. Lei lo lasciò fare perché non la infastidivano mentre univa i propri gemiti a quelli di lui e gli graffiava la schiena dopo venti minuti di intensa nudità.
Quando uscì dal bagno la testa gli girava leggermente, ma era già pronto a tornare alla carica. L’euforia dell’orgasmo gli galvanizzava ancora i muscoli e il profumo di lei che aleggiava nella stanza travolse i suoi ormoni. La trovò seduta nella poltrona accanto al letto, le gambe nude raccolte sotto di lei e i capelli corvini sciolti sulle spalle, che armeggiava con la sua cravatta. Due bicchieri colmi di vino fecero loro compagnia mentre ridevano sdraiati assieme, lui disteso sulla schiena accarezzandole il fianco vellutato, lei quasi sopra di lui, stuzzicandolo con la carne soda della coscia. Gli mostrò anche quello che stava pensando di fare poco prima con la cravatta.
02:51 am
Fu subito dopo l’esplosione del loro secondo orgasmo che lui ebbe la prima reazione degna di nota. Si alzò dal letto, col respiro corto e la testa confusa da un attacco di vertigini. La seconda visita al bagno fu molto meno dignitosa della prima e al ritorno riuscì a malapena a trascinare la sua traballante figura fino alle lenzuola. In bocca sentiva ancora l’amaro sapore della bile, che l’acqua del lavandino non era riuscita a lavare via.
«Mi sa che ho bevuto un po’ troppo, baby» le disse e si accorse che la lingua stentava ad obbedirgli. Una bizzarra sensazione di formicolio e calore gli si stava diffondendo sulla pelle, dalla schiena fino agli arti.
Si stese sul letto, lei gli si avvicinò e gli si accoccolò accanto, accarezzandogli i capelli.
«Riposati un po’, alla tua età non dovresti fare queste cose» gli disse, languida.
«Stronza!» le rispose, tirandosela vicino ed affondando il viso tra i seni perfetti. Nei minuti seguenti la nausea tornò a farsi sentire, accompagnata da crampi allo stomaco e da un’acuta debolezza che gli impediva di muoversi. La stanza sembrava nuotargli attorno.
«Baby, forse è meglio che chiami qualcuno. Anzi, chiama direttamente un’ambulanza. Oh Dio!» la luce della lampada era insopportabilmente forte e parlare era diventato troppo faticoso. Perfino respirare non era una passeggiata.
Lei non si mosse.
«Baby, cazzo, alza il culo! – rantolò - Chiama l’ospedale, digli che ho mangiato qualcosa di marcio!»
«Tranquillo, è solo un po’ di nepalina» gli disse lei tranquillamente, alzandosi ed andando a frugare nella sua borsetta.
«Cosa?»
«Nepalina. Aconito. Quello che si usa per ammazzare i lupi. E i cani.» Estrasse dalla pochette di pelle nera un astuccio con un’ipodermica e una minuscola fiala di liquido trasparente. «Tranquillo, non te ne ho dato abbastanza per ucciderti.»
«Gh..»
«Sì, sì, lo so, fa male – la siringa era piena ora, e lei si avvicinò al letto. Era ancora nuda – ma fidati, questo farà ancora più male. E ti ammazzerà, chiaramente.» Con mani esperte, cercò una vena sul suo avambraccio e infilò l’ago, svuotando il contenuto della siringa nel suo sangue.
«Normalmente sarei meno teatrale... infarto, ictus, incidente d’auto... – fece sparire la siringa nella borsetta e si rimise la camicia di lui. Poi si versò un altro bicchiere di vino e tornò sulla poltrona con un sospiro – ma mi è stato detto di lasciare un messaggio. E comunque facevi veramente schifo in questo lavoro. Seriamente, sembri uscito da un pessimo racconto di spionaggio.»
Lui stava ascoltando solo a metà, i nervi del collo e della faccia in pieno erano in fiamme, i muscoli in pieno rictus. Poteva sentire il veleno farsi strada nel suo corpo, seminando lo sfacelo, mentre lei lo guardava morire serenamente dalla poltrona.
«Pieni voti per il resto. E a proposito di sesso, grazie di avermela resa così facile – disse, sfiorandosi l’anello di perle col pollice della stessa mano – Guarda bene, vedi l’ago? Bello vero?» si alzò, attenta a non versare il vino, e gli sventolò il gioiello davanti agli occhi strabuzzati. Una leggera schiuma bianca gli macchiava gli angoli della bocca. Le convulsioni stavano per iniziare. «Grazie per avermelo fatto tenere addosso» e gli fece l’occhiolino. Lo aveva previsto, la bastarda. Lei tornò a sedersi, si passò il bicchiere nell’altra mano e attese.
04:07 am
«Bravo, Johnny. Continua così. Sì.»
Lucido, sempre lucido mentre la stricnina gli incendiava il sistema nervoso lanciando il suo corpo in una serie di convulsioni sempre più violente, si trovò a pregare perché la fine arrivasse. Ogni respiro era una lotta, i polmoni sconvolti da un diaframma impazzito sull’orlo del collasso, colmi di schiuma. L’ultima occhiata che le rivolse gliela rivelò ancora seduta, gli occhi fissi sul suo corpo fuori controllo, una mano inanellata a reggere il bicchiere vuoto, l’altra scesa tra le cosce tornite, lo sguardo umido e sognante.
«Muori per me, Johnny.»
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