I dannati

Riccardo Tabilio

Riccardo Canepa, il grande attore, era stato fatto fuori.

Le stroncature programmate, le accuse, la sospensione degli spettacoli, l’arresto e infine la reclusione: tutto seguì un copione preparato. Il suo inesorabile affondamento – di questo si trattò nel caso dell’attore Canepa, applaudito mattatore delle scene e affascinante Amleto dallo sguardo dolente – si concluse con la morte civile, che gli fu inflitta con il marchio più infame. Il prologo lo batté il Messaggero: «Riccardo Canepa a processo per atti osceni». Gli fecero eco gli altri fogli di regime: «Canepa riconosciuto colpevole di immoralità», «Scandalo a Roma. Noto attore dedito alla pederastia». Concluse la tragica farsa il Corriere, in un trafiletto: «Riccardo Canepa al confino». Fu l’ultimo atto. Poi il sipario, il buio, il silenzio.

Finì sull’isola di Materdomini, da detenuto. Anche lì fu vittima della sua notorietà. Fu maltrattato, gli sputarono, prese botte. Fu trasferito in una cella singola. L’isolamento, che dapprima gli pareva un miraggio – poter stare da solo, per la prima volta – si rivelò terribile.

Il Blocco D era diretto dall’ispettore superiore Mariangela Donati e da un manipolo di agenti al suo comando. La Donati era odiata ardentemente da tutti i detenuti del blocco e ricambiava disprezzo e insulti, mettendo in pratica con fervido zelo tutto quanto le era lecito: dalle perquisizioni nel cuore della notte a provvedimenti disciplinari gratuiti e crudeli.

Canepa ne fece le spese più di altri. Per un ritardo irrisorio fu considerato ‘incline all’insubordinazione e potenzialmente sovversivo’. I secondini irrompevano nella sua cella a tutte le ore, lo mettevano al muro e lo facevano spogliare, mentre frugavano tra le sue poche cose per ‘l’ispezione’. La Donati assisteva al cerimoniale e interrogava il detenuto, lo insultava, gli diceva frocio invertito bestia, lo fustigava. Si faceva chiamare: signore.

Riccardo Canepa smise di dormire. Sognò l’ispettore Donati. Entrava di notte nella sua cella. Gli aveva messo un cappio al collo e aveva fatto passare la corda attraverso un anello che era infisso nel soffitto. Tenendo l’altro capo e tirandolo con forza incredibile, fino quasi a strangolarlo si era levata la cintura, gli stivali e il resto dell’uniforme davanti a lui, fino a spogliarsi completamente. Aveva un corpo luminoso e freddo, nelle cui curve la giovinezza sfioriva appena, in un letale chiaroscuro di tagli e di incavi. Lo minacciò: «Frocio, bestia che sei! Mettimelo dentro o ti impicco! Sei un uomo o no?»

Canepa si vide eseguire l’ordine, prendendola da dietro, e la penetrò fino allo sfinimento, fino a che il cappio, trattenendolo, non gli impedì di continuare: finché la corda sempre più tesa non lo staccò da terra. Dimenandosi a mezz’aria vomitò sangue nero e ceroso che faceva fumo di benzina e schizzava a litri sul pavimento.

Si svegliò rantolando e tossendo. La ronda della notte si fermò davanti alle sbarre: «Canepa! Che hai?»

Il detenuto Canepa soffocò la tosse e non rispose. Il secondino aspettò un momento e poi proseguì lungo il corridoio.

Canepa si rese conto di stare male. Gli crebbe dentro una rabbia cocente. Ricordò i particolari del sogno: lei! L’avrebbe ammazzata a martellate, la puttana, la voleva soffocare, farla a pezzi! – Canepa lanciò un urlo da bestia ferita.

Insonne e febbricitante si alzò dal giaciglio e si rintanò nell’angolo della cella meno visibile dal corridoio, dove, in preda alla frenesia e agli echi del sogno, si calò le braghe e appagò più volte la propria furia.

Tornò a letto, strisciando quasi, per la vergogna e la nausea. Pianse.

Il mattino dopo aveva preso la decisione definitiva.

Il regime era prossimo al collasso. In carcere si parlava di sbarchi, la Sicilia già persa. L’atmosfera si surriscaldò, ci furono tentativi di rivolta, senza esito. Dall’altro lato aumentarono il controllo e le vessazioni. Ci furono fustigazioni pubbliche a scopo dimostrativo, torture. In un altro blocco del carcere, si seppe, qualcuno aveva provato a scappare ma li avevano ammazzati a colpi di fucile. La salute dell’ex attore Riccardo Canepa cominciò a peggiorare: la notte tossiva, si agitava tra le lenzuola, delirava. La cosa fu segnalata al medico della prigione, che, dopo averlo visitato, lo mise nella lista dei casi più gravi, quelli coi giorni contati.

La notte del primo agosto Canepa si sentì male davanti all’agente di ronda Claudiani, accasciandosi in terra esanime, il sangue che gli colava dal naso. Impressionato e allertato l’agente si affrettò ad aprire la cella e trascinò fuori il detenuto morente. L’agente se lo trovò improvvisamente addosso, gli stringeva il collo: «Che c’è? – sussurrò – Spaventato da un colpo a salve?»

Gli aveva sfilato la pistola dalla fondina e gliela puntava alla testa, la punta ficcata nell’orecchio.

Canepa condusse Claudiani di fronte alla cella di fronte, minacciandolo di sparargli in testa. L’inquilino era in piedi in silenzio e aspettava che gli aprissero la porta. L’agente Claudiani, piangendo e implorando, aprì tutte le porte del blocco. I detenuti riuscirono a fare tutto senza far rumore, anche quando gli tagliarono la gola. Poi si armarono alla meglio, con tubi e bastoni: Canepa ed altri andarono nella stanza dei generatori e staccarono la corrente, presero le taniche di cherosene e lo rovesciarono sui letti, sulle porte, su ogni cosa infiammabile nel blocco. Appiccarono il fuoco. La sirena dell’allarme si levò nella notte. Un manipolo di secondini allertato dal fuoco piombò nella trappola. Furono soppressi a bastonate e privati delle pistole. Era iniziata la conquista del blocco: metro per metro, morto per morto bisognava arrivare al mare.

Giunti nel cortile, l’ex attore Riccardo Canepa, capo della rivolta, abbandonò la prima linea e si diresse verso gli appartamenti delle guardie, scivolando lungo i muri. Trovò l’uniforme di un secondino e cambiò con essa la sudicia casacca e le braghe. Poi raggiunse il piano superiore, mentre fuori la battaglia per la conquista del mare proseguiva. Recitando la parte del portaordini in allarme superò gli agenti armati che scendevano in gran fretta e guadagnò infine l’ufficio dell’ispettore superiore Donati.

Dentro c’era confusione: scartoffie dappertutto, il telefono muto rovesciato in un angolo, cocci sul pavimento. La poca luce veniva dall’esterno, il bagliore delle fiamme disegnava guizzi spettrali sulle pareti.

La Donati si era accasciata in un angolo, il volto sanguinante per il violento colpo di Canepa, gemeva. Canepa bloccò la porta con il chiavistello. Poi le si avvicinò e la prese per la camicia: «Dimmi quello che mi hai detto! Dimmelo, dimmelo ancora!»

Lei era paralizzata. Canepa furente le strappò i vestiti, la denudò, la picchiò.

«Bastardo…» sussurrò lei.

«Come?»

«Bastardo, bestia!» disse più forte.

Canepa si fermò: «Cosa? Dillo ancora, ancora! – la fece alzare – Ancora!»

La donna perse il controllo: «Bastardo invertito schifoso!», gli diede uno schiaffo, poi un altro, lo prese a calci.

Canepa non reagì subito. Da fuori arrivava rumore di spari, un’esplosione, forse un generatore. Quando la donna finì a terra stremata, lui si sfilò il cinturone, raccolse quello della donna e li legò tra loro, facendo un doppio anello con le fibbie. Si mise un anello al collo. Mise l’altro anello al collo di lei. Le si inginocchiò sopra e le aprì le cosce. La donna non riuscì ad opporsi, il doppio scorsoio stringeva il collo di entrambi. Lui le entrò dentro, mentre un’altra esplosione – vicina, doveva essere nel corridoio – vibrò nei muri. Entrava fumo nero da sopra la porta, odore di benzina, calore. Lei, con la mano libera tirava il cappio per soffocare il suo aguzzino, ma così facendo lo costringeva ad avvicinarsi. Così faceva lui, sollevando il busto: si negava il proprio godimento per protrarre la sua vendetta qualche secondo alla volta. Nessuno dei due, tuttavia, resisteva a lungo lontano dall’altro. Rotolarono sul tappeto, sui vetri rotti. Cominciarono a tossire e a dimenarsi.

 

Se la trovò sopra, nuda e arrogante. Bellissima. L’aria nella finestra tremolava per le bordate di calore dell’incendio. Lui si sentì sul punto di svenire, ma resistette.

 

C’era anche sangue, vide a un certo punto, pennellate scure, mischiato a filtri mortali, e oscuri affreschi sulla volta del soffitto: il principe di Danimarca impiccato come un brigante, Ofelia che bruciava sul rogo. Deformata dal calore, la porta scoppiava dietro le loro teste.

 

Con l’ultimo respiro, alla fine, lui la uccise.

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